Trentotto megabyte: meno dello spazio occupato dallo sfondo del menu della PlayStation 5. È questa la dimensione totale di Animal Well, uno dei giochi più acclamati di quest’anno. Un paradosso che fa tremare l’industria dei videogiochi, abituata a sfornare blockbuster da centinaia di gigabyte pieni di texture fotorealistiche e effetti speciali hollywoodiani. Videogiochi che costano come film di Hollywood (cento o duecento milioni di dollari) sono condannati a incassarne tre o quattro volte tanto per andare in pari e dare profitti, a scapito della qualità ovviamente (se un gioco deve piacere a tutti vuol dire che non piace veramente tanto a nessuno.
La domanda che nessuno vuole farsi apertamente è semplice: e se l’imperatore, pardon, l’iperrealismo grafico fosse nudo? Se fosse arrivato il momento di ripensare l’intera filosofia che ha guidato il settore negli ultimi vent’anni?
I segnali del cambiamento
Del resto i segnali ci sono tutti. Da una parte Sony che lancia una PlayStation 5 Pro a settecento dollari per avere riflessi più realistici nelle pozzanghere (vedi The Last of Us II Remastered) e cartelloni pubblicitari più definiti a Manhattan (il buon Spider-Man 2), dall’altra i giochi più giocati al mondo che sembrano usciti da una console di vent’anni fa.
Perché titoli come Roblox, Minecraft, Fortnite hanno tutti una cosa in comune: grafiche relativamente minimali, stilizzate, che girano su qualsiasi dispositivo e creano dipendenza in centinaia di milioni di giocatori. “Girano praticamente su un tostapane”, dice senza giri di parole Matthew Ball, analista di punta del settore, sottolineando come gli sviluppatori non stiano più inseguendo la grafica ma piuttosto le connessioni sociali che i giocatori creano nel tempo. Anche perché è veramente cambiato tutto con l’attuale generazione di gamer. Ma lo vediamo tra un attimo.
La vittoria dello stile sulla potenza
Intanto, il cambio di paradigma è evidente anche guardando i numeri. La Switch di Nintendo, con la sua grafica volutamente cartoonesca, ha venduto 146 milioni di unità in otto anni. Sony, con la sua ossessione per il fotorealismo, non è mai riuscita a far superare alla PS5 le vendite della PS4 nello stesso periodo del ciclo di vita. È come se il pubblico stesse mandando un messaggio chiaro: la grafica è importante, ma non è tutto. Anzi, forse non è nemmeno la cosa più importante.
Non è solo questione di spazio su disco o di potenza di calcolo. Il vero problema dell’iperrealismo è che sta diventando economicamente insostenibile. Sviluppare giochi con grafica fotorealistica richiede team enormi, anni di lavoro e budget che fanno impallidire una produzione hollywoodiana. La cifra di 100-200 milioni di dollari che scrivevamo sopra non è casuale, è proprio quella che viene spesa mediamente nel settore per i titoli AAA, “tripla-A”, cioè le grandi produzioni con più pixel di tutti. Solo che non tutti rendono abbastanza. E in generale nessuno rende più come prima. Il risultato? Studi di produzione che chiudono, licenziamenti a raffica e una crescente avversione al rischio che sta soffocando la creatività. Quando ogni pixel costa come l’oro, chi può permettersi di sperimentare?
La lezione indie
Ed è proprio qui che entra in gioco la rivoluzione indie. Mentre i grandi studi annaspano con progetti faraonici, piccoli team e sviluppatori solitari stanno dimostrando che si può fare di più con meno. Animal Well non è un caso isolato: pensiamo a Stardew Valley (che ormai è diventato mainstream), Undertale, Vampire Survivors. Giochi che hanno conquistato milioni di giocatori non per la loro grafica spettacolare, ma per il gameplay innovativo e la personalità distintiva. È la rivincita della sostanza sulla forma, del design sull’abbaglio tecnologico.
L’ironia della situazione è che questa “retromarcia” grafica sta aprendo nuove frontiere creative. Liberati dall’ossessione del fotorealismo, gli sviluppatori stanno riscoprendo il valore dello stile e dell’astrazione. È come se l’industria dei videogiochi stesse vivendo il suo momento cubista: dopo anni di rincorsa alla rappresentazione perfetta della realtà, sta imparando che a volte deformarla o sintetizzarla può essere più interessante. E più divertente. La cosa ha a che fare probabilmente con il modo con il quale le arti non solo figurative evolvono naturalmebnte nel tempo. Solo che per l’industria dei videogiochi è successo tutto in meno di 70 anni, da quando cioè è comparso il primo oscilloscopio sul cui schermo si poteva giocare a “pong”. E a ben guardare non è neanche tanto sorprendente che si vada così veloci quando si parla di tecnologia: sessant’anni dopo il primo volo dei fratelli Wright, siamo andati sulla Luna, dopotutto.
Il futuro è ibrido
La vera sfida per il futuro dei videogiochi sarà trovare il giusto equilibrio. Dopotutto, una delle variabili cambia costantemente: i processori (normali, grafici, neuronali) diventano sempre più potenti. E da pochissimo abbiamo a disposizione l’inbtelligenza artificiale usata in mille modi diversi, ma tutti con impatti significativi sulla grafica (compreso l’upscaling in tempo reale).
Non si tratta di rinnegare completamente il progresso grafico (ci saranno sempre giocatori disposti a pagare per esperienze visivamente mozzafiato, inclusi noi in redazione a Macity) ma di usarlo con più criterio. L’intelligenza artificiale potrebbe giocare un ruolo chiave anche nella produzione per abbattere i costi, ad esempio automatizzando parte del lavoro di modellazione e texturing che oggi richiede mesi di lavoro manuale. Ma la vera rivoluzione dovrà essere culturale: l’industria deve imparare che la grafica è uno strumento, non il fine ultimo. Sembra una banalità, ma nel settore dei videogiochi la grafica è considerata il fine ultimo, la vera prova di forza. E nessuno a quanto pare vuole imparare dalla lezione di Nintendo (che fa della giocabilità la chiave) o da alcuni titoli di prima parte di Sony, che considera la grafica uno strumento espressivo per raccontare la storia.
Forse stiamo assistendo non tanto alla fine dell’era della supergrafica, quanto alla sua maturazione. Come il cinema che ha superato la fase dell’infatuazione per gli effetti speciali per tornare a concentrarsi sulla narrazione, anche i videogiochi stanno entrando in una nuova fase di consapevolezza. Una fase in cui il valore di un gioco non si misura in teraflop o in gigabyte, ma nella sua capacità di coinvolgere, emozionare e, soprattutto, divertire. Anche se occupa lo spazio di un semplice screenshot sullo smartphone.