“Hanno atteso il novantesimo anniversario, la vendita del quarantamilionesimo obbiettivo (e gli improperi di milioni di clienti) prima di decidersi a «superare le limitazioni», come recita il comunicato stampa pubblicato in pompa magna ieri, 23 agosto 2007: finalmente, dopo un decennio nel settore digitale caratterizzato da alti e bassi, Nikon ha comunicato la disponibilità nel prossimo trimestre della nuova ammiraglia reflex digitale, il modello D3, erede delle D1, D1X, D2 e D2X.
La macchina ha poche novità rilevanti (processore di immagine più potente, otturatore collaudato per 300.000 scatti, doppio slot per schede di memoria, corpo tropicalizzato, struttura in magnesio, velocità di scatto per raffiche pazzesche, design di Giorgetto Giugiaro come già visto per la F6) e ciò che davvero interesserà i professionisti sta nel sensore: con almeno tre anni di ritardo sulla concorrenza, Nikon pone fine ad una situazione disastrosa di inaccettabile ritardo, approdando oggi al sensore full-frame, ribattezzato per l’occasione “FX”.
La notizia è tutta qui. Per quanti negli ultimi anni non abbiano avuto consuetudine con il settore fotografico professionale, la sfortuna o magari la necessità di lavorare con una reflex digitale Nikon, per loro la notizia è di poco conto. Per tutti gli altri, è questione di mal di pancia. Di gioia anche, ma soprattutto di sentimenti contrastanti.
La questione.
à noto agli addetti ai lavori, anche se non a tutti, che uno stesso obbiettivo può essere impiegato con diversi formati di pellicola: le caratteristiche dell’ottica non variano al variare del materiale sensibile, ovviamente, e perciò un grandangolo avrà sempre una resa prospettica diversa da un normale, ma ciò che varia è l’angolo di campo apparente fissato sulla pellicola o sensore. Una pellicola nelle dimensioni immaginate dal progetto ottico offrirà senza dubbio il risultato migliore per uno specifico obbiettivo, sia per prospettiva che per uniformità luminosa; una più grande non sarà del tutto coperta dall’immagine o lo sarà con decadimento; una più piccola rappresenterà un ritaglio centrale dell’inquadratura.
In termini pratici, la scelta di un sensore più piccolo della pellicola 35mm da parte di Nikon ha obbligato a fare un passo indietro i fotografi più fortunati che lavorano all’aperto, ha schiacciato sui muri e oltre quelli dediti alle riprese in interni, ha fatto sgolare ritrattisti e fotografi di moda. Tutti allontanati del 50% dal soggetto e dal risultato ideale: molte immagini non sono più state alla portata del corredo di obbiettivi.
Un passo indietro.
Negli ultimi tre/quattro anni, mentre le più affermate industrie di prodotti elettronici di largo consumo ci hanno insegnato a valutare le “ere informatiche” non più in anni, ma in semestri, il colosso giapponese Nikon si è trovato ad affrontare un paradosso: dopo investimenti ingenti prima nel fallimento annunciato, dall’infausto nome di Pronea, anacronistico tentativo digitale, poi, con ritardo ancor peggiore, in una tecnologia ormai al capolinea a detta dei principali osservatori, quella del sensore CCD, oppresso da bilanci passivi, il colosso mondiale della fotografia si è visto costretto ad una strategia di rientro dai debiti, avendo su un piatto della bilancia il supporto e l’innovazione del settore professionale e, sull’altro, il ricchissimo bacino dell’utenza consumer.
La preferenza è andata ai piccoli clienti, a cui sono state rifilate tecnologie vecchie in confezioni nuove, anche se spesso con prodotti non così lontani nelle prestazioni dalle fotocamere ammiraglie; il tutto però a danno degli affezionati e spesso innamorati professionisti, a cui è toccato un po’ di ossigeno, ma non più di una volta l’anno, molte bugie e tanto, tanto, troppo marketing.
L’annuncio di ieri avvalora questa tesi senza la minima possibilità di replica.
La polemica infuocata, ormai, non giova più a nessuno, né qualcuno potrà restituire gli anni passati a vedere i colleghi primeggiare con Canon o le ore consumate ad inventarsi un colore che non c’era o, peggio, lo scoramento nel vedersi sbeffeggiati da modeste compattine, dotate di coperture grandangolari ben superiori a blasonate macchine professionali e, insieme, il ricatto dei nuovi obbiettivi con la data di scadenza incorporata.
Ma perché almeno l’esperienza sia d’esempio, possono essere utili altri due passi, quasi di danza: un passo a lato, l’altro in avanti.
Un passo a lato.
Nei terribili anni conclusi ieri, in molti hanno liquidato l’intero corredo a favore del concorrente più forte, l’altro colosso giapponese, Canon: potrà sembrare una cosa di poco conto rinunciare all’esperienza maturata con un obbiettivo specifico, ma per chi conosce un pochino il mondo professionale, il dato non è così irrilevante. Grandi cineasti, grandi fotografi, grandi tennisti, piccoli artigiani hanno tutti una personalissima affinità con lo strumento quotidiano e rubare la macchina da cucire ad un sarto può avere un che di sacrilego.
E questo è il primo dato: in un’epoca di completo livellamento tecnologico (Apple e Microsoft ormai fanno girare sistema operativo e applicazioni sulle stesse macchine, cosa impensabile solo cinque o sei anni fa; gli scanner piani sono tutti più o meno identici nella sostanza, indipendentemente dal produttore; riproduttori musicali, telefoni, frigoriferi o le lavatrici, quando non a produzione centralizzata e successiva rimarchiatura, offrono comunque prestazioni pressoché analoghe), si è assistito ad un abisso qualitativo tra due aziende concorrenti: in altre circostanze l’una avrebbe dichiarato fallimento o sarebbe stata incorporata dall’altra, ma Nikon è un colosso e tutti i settori (dalla microscopia fino ai prodotti consumer) hanno arginato la falla.
Il rivale più insidioso, quello che da sempre detta legge nel settore dell’immagine, l’americana Kodak, ha abbondato il comparto reflex digitali professionali proprio poco prima dell’affondamento di Nikon. Mentre l’altro rivale, di livello inferiore ma ugualmente insidioso, la giapponese Fuji, che sin dalla prima ora della fotografia digitale propone soluzioni alternative ai Nikonisti scontenti, ebbene casualmente anch’esso non ha mai prodotto una vera soluzione alternativa capace di attrarre un bacino immenso di potenziali clienti (si parla di milioni di professionisti nel mondo, disposti a spendere tra i tre e gli otto mila euro per un corpo macchina).
Due curiose convergenze che, di fatto, hanno eliminato qualsiasi concorrente, all’infuori di Canon.
Un passo avanti.
à del 14 giugno scorso la notizia di una nuova tecnologia per i sensori digitali: viene abbandonato il tradizionale pattern Bayer 2×2 a favore di un rivoluzionario 4×4, detto quasi impropriamente pancromatico.
Senza scendere in troppi dettagli, si può dire che la struttura minima di un qualunque sensore digitale era fino ad oggi costituita da quattro elementi (un quadrato di 2×2 celle), dei quali due sensibili al verde, uno al rosso, uno al blu.
Fu il risultato di lunghi studi sulla natura della luce e insieme, per la prima volta in fotografia, di analisi statistiche sulla visione umana condotte già a partire dai primi anni del Novecento e confluite in un modello sintetico proposto dalla Commision Internationale de l’eclairage (CIE) nel 1931.
Oggi, praticamente qualunque fotocamera si poggia su queste fondamenta.
Ma a giugno appunto, Kodak, già titolare del brevetto “Bayer patter” del 1976, ha depositato un nuovo brevetto per una tecnologia che promette, in estrema sintesi, di superare le limitazioni degli attuali sensori, specialmente nelle zone d’ombra più profonda e nelle alte luci: allo scopo la griglia minima viene ora suddivisa in quattro righe e quattro colonne (4×4) e di questi sedici quadrati otto sono destinati alle frequenza del rosso, del verde e del blu (con l’analogo rapporto di ieri: quattro celle sensibili al verde, due al rosso, due al blu). Gli altri otto non hanno un’impostazione predefinita, né quindi un filtro ottico colorato a selezionare le frequenze: pertanto sono sensibili a tutte le lunghezza d’onda e quindi possono dirsi pancromatici.
Per intenderci, si affronta il sensore nei termini di una moderna versione delle celle argentiche in una pellicola in bianco e nero, all’interno di uno scacchiere che così diviene sia pancromatico, sia a colori.
Non è ancora noto se esista già un algoritmo di elaborazione in grado di sfruttare le potenzialità della nuova tecnologia.
In ogni caso, si può parlare di una rivoluzione copernicana in fotografia digitale: al centro del processo viene messo il sensore digitale e i suoi algoritmi e non più o non solo l’osservatore e la scena ripresa.
Quasi certamente, Nikon ha perso l’occasione di presentarsi al mondo come il primo produttore ad utilizzare la tecnologia più innovativa oggi disponibile: nonostante ne avesse l’evidente possibilità e il già gravissimo ritardo permettesse ulteriori deroghe, la casa giapponese ha preferito invece la strada di un collaudato sensore CMOS tradizionale, pari o inferiore a quelli già visti in tante realizzazioni Canon degli ultimi quattro o cinque anni.
E allora tutti i comunicati stampa sulla superiorità del formato DX nella gestione dei flussi tangenziali, il fumoso ricorso a nuove e improbabili ottiche per recuperare il divario (ottiche che, da ieri, sono buone per farci il sugo o per reggere il presepe a Natale), la continua e snervante mancanza di informazioni e risposte ai quesiti più elementari posti dai professionisti, tutto viene cancellato in una sola mossa e con un invito perfetto per accompagnare un buon bicchiere di Maalox. “Prepare yourself for a whole new game: Defy limitation!” (Preparati per una nuova grande sfida: supera le limitazioni!).
Buona nuova Nikon D3 a tutti noi.”
Giorgio Pedretti, fotografia d’architetture e d’interni, nuove tecnologie per i materiali di interesse storico artistico
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