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Digitale europeo in ritardo, la colpa è della cultura

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I critici e i maldicenti sostengono, semplicisticamente, che mentre l’America innova e la Cina copia, l’Unione europea fa leggi. Come dire: la cosa più inutile e meno produttiva. Ovviamente nei consulenti che dicono queste cose c’è sempre un retrogusto malizioso, perché è solo nel Far West che i big possono accelerare e attrarre magneticamente ogni singola frazione di euro da qualsiasi cosa sfiorino.

Le leggi però ci sono e, nonostante questi signori, non si tratta solo di testi che dicono “no no” ma anche di piani articolati che indicano, promuovono, strutturano e cercano di costruire. Lasciando le strutture normative e gli incentivi alle imprese: dopotutto il compito della politica non è quello di generare ricchezza ma di redistribuirla in maniera equa. O almeno, così dovrebbe essere.

La cultura di Bruxelles

In Europa si cerca da tempo di trovare la strada per farlo, sia dal punto di vista discendente (la redistribuzione) che dal punto di vista ascendente (la creazione di piani e di normative di supporto). Per farlo uno degli obiettivi strategici che la Commissione europea ha individuato è il piano Digital Decade 2030. Nato prima dell’esplosione della AI, è perfettamente compatibile (e ha già inglobato) tutto quel che riguarda l’intelligenza artificiale.

Il tema di fondo è questo: l’Unione sta perseguendo una visione sostenibile e incentrata sull’uomo per la società digitale per tutto il Decennio Digitale, al fine di potenziare i cittadini e le imprese. Il programma politico del Decennio Digitale definisce le ambizioni digitali per il prossimo decennio sotto forma di obiettivi chiari e concreti. Gli obiettivi principali possono essere riassunti in 4 punti: 1) una popolazione con competenze digitali e professionisti digitali altamente qualificati; 2) infrastrutture digitali sicure e sostenibili; 3) trasformazione digitale delle imprese; 4) digitalizzazione dei servizi pubblici.

Il livello di partenza

La rivoluzione è culturale. Prendiamo il mercato e le imprese. Si parla di riuscire a trasformare lo spirito oltre al modo con il quale le imprese fanno le cose. Cioè digitalizzare non solo i servizi e gli impianti, ma anche gli obiettivi della riflessione, per far sì che non si usino i nuovi strumenti come se fossero una alternativa al mondo digitale.

Se per esempio una azienda elimina completamente la carta ma poi utilizza i PDF esattamente come se fossero modulistica di carta, arrivando alla duplicazione degli stessi esatti processi che prima si svolgevano materialmente e adesso si fanno in maniera digitale senza cambiamenti, ottimizzazioni e risorse, evidentemente c’è qualcosa che non funziona. Il problema non è più tecnologico ma culturale: i flussi di lavoro dipendono dalle nostre teste.

La Digital Decade 2030 europea forse non sta andando molto bene
Immagine dal report 2030 Digital Decade della Commissione europea.

I dati del 2023

Secondo quanto pubblicato dal Digital Intensity Index (DII) da parte della Unione europea, le cose non vanno benissimo. Cioè, mentre il 59% delle imprese dell’Unione europea ha raggiunto almeno un livello di base di intensità digitale, solo il 58% delle piccole e medie imprese (quelle di cui è fatto il tessuto industriale italiano) ha raggiunto questo traguardo, contro il 91% delle grandi aziende.

Per valutarlo si usano algoritmi e questionari sofisticati che usano matrici complesse: per arrivare al livello base serve l’uso di almeno 4 delle 12 tecnologie digitali indicate nei prospetti: ad esempio l’intelligenza artificiale (AI), i social media, il cloud computing, il Customer Relationship Management (Crm) o avere vendite di e-commerce che rappresentano almeno l’1% del fatturato totale.

L’obiettivo della Unione europea è di portare più del 90% delle imprese piccole e medie del Vecchio continente oltre al livello base entro il 2030. Farlo però più difficile che dirlo, visto che sono poche, pochissime. Solo il 4,4% delle piccole e medie imprese europee ha un livello molto alto di intensità digitale, il 19.6% arriva al livello alto, mentre la maggior parte è al livello basso (33,8%) o molto basso (42,3%).

La grande rincorsa

Per arrivare a questo obiettivo esistono sostanzialmente tre strade: fare come fa la Cina, con delle riforme “militarizzate” che vengono dettate da piani strutturati e poi lasciati a una serie di aziende “amiche” (cioè pesantemente influenzate dal governo o da alcuni grandi blocchi di potere come l’esercito); oppure fare come fa l’America, che sfrutta la struttura costruita nel corso del tempo e lascia ai grandi monopoli e al libero mercato di occuparsi delle parti operative (la mano invisibile del mercato).

Oppure fare come si fa in una socialdemocrazia europea, cioè stabilendo regole, costruendo mercati, fornendo piattaforme e strumenti: per la digitalizzazione

È urgente farlo, perché – entro il 2030, l’AI dovrebbe iniettare più di 11mila miliardi di euro nell’economia globale, secondo le previsioni. Si prevede che entro il 2025 a livello globale l’intelligenza artificiale e la robotica stimoleranno congiuntamente la creazione di circa 60 milioni di nuovi posti di lavoro.

L’Europa allora si è attivata, anche perché a differenza di Cina e Usa deve trovare la quadra per 27 Paesi membri con differenti livelli economici, dimensioni, tessuti industriali e strategie di governo. Quindi: piani e soldi.

Il Centro congiunto di ricerca della Commissione europea ha condotto un’analisi esaustiva dei finanziamenti relativi all’AI nei paesi dell’Unione europea. Il Next Generation EU (NGEU) e il suo Recovery and Resilience Facility (RRF) rappresentano il 70% degli investimenti totali nella trasformazione digitale. In particolare dei 116,8 miliardi di euro stanziati dal NGEU RRF per il “Decennio digitale”, 4,37 miliardi di euro sono destinati a progetti di intelligenza artificiale.

Cosa manca

Quel che manca è la cultura. Non la cultura d’impresa (di quella ne abbiamo fin troppa, visto tutto quello che stiamo privatizzando) quanto quella digitale. La comprensione che i piani che stiamo muovendo sono piani che partono da lontano: servono persone che capiscono la portata del digitale, sanno usare gli strumenti, sanno adeguarsi, sanno trasformarsi.

Lo spirito è sempre quello allora: per contribuire alla costruzione di un’Europa resiliente per quello che la Unione europea ha definito il Decennio digitale, le persone e le imprese devono poter godere dei vantaggi delle tecnologie (e della AI in particolare) sentendosi al contempo sicure e protette. Per poterlo fare devono imparare a usare le tecnologie sia nella vita che nel lavoro. E capire quali sono le cose che si possono fare e quali no. E capirlo in modo sicuro.

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