Sono passati dieci anni. Sono passati dieci anni da quando Steve Jobs, che sarebbe scomparso poco meno di due anni dopo, si sedette su una comoda poltroncina progettata dall’architetto svizzero Le Corbusier, accavallò le gambe e tenne un iPad appoggiato, con una naturalezza che negli anni successivi sarebbe comune a milioni e milioni di persone.
Era la presentazione che oggi dieci anni fa Jobs e i suoi uomini di punta (Phil Schiller, Scott Forstall, Jony Ive) fecero del primo iPad. Una presentazione che è passata alla storia. Per chi ha mai avuto quell’iPad di prima generazione, le differenze con il mondo che ne è seguito sono piccole e al tempo stesso gigantesche.
Il primo iPad…
L’apparecchio che inventava una nuova categoria di prodotti Post-PC aveva un display multitouch da 9,7 pollici di diagonale e una risoluzione di 1.024 x 768 pixel. Un pulsante home. Ampi bordi squadrati. Il sistema operativo, derivato da quello di iPhone ma non ancora “separato” seppure tecnicamente fosse già un’altra cosa (l’iPad non è mai stato un “iPhone più grande”, checché ne abbiano detto soprattutto i concorrenti di Android, che invece non hanno mai sviluppato un sistema operativo parallelo per i loro tablet), era anni luce da quello di oggi, eppure anche così straordinariamente vicino sia nelle interazioni di base che nel concetto di fondo: la centralità delle applicazioni e non dei documenti e delle cartelle, il file system non esposto, il touch come unica modalità di interazione con lo schermo.
…dieci anni dopo
Sono passati dieci anni. Quell’iPad, che Macity in una storica spedizione andò a comprare il venerdì di Pasqua del 2010 dopo una lunga coda davanti all’Apple Store sulla Fifth Avenue di New York (da noi sarebbe stato distribuito solo dopo alcuni mesi) per consentire a voi lettori di sapere di prima mano quali caratteristiche aveva questo nuovo apparecchio, ha cambiato tutto. È diventato il primo di una categoria che non è mai riuscita a metterlo in crisi. Accanto al primo iPad sono infatti arrivati gli Android “grandi”, gli Windows “strani”, i ChromeBook e chissà cosa altro, per poi fallire miseramente uno dopo l’altro.
Il grande dubbio che tutti avanzavano, e che la concorrenza di Apple non è ancora riuscita a vincere, era se un apparecchio di questo genere che si colloca a metà fra un personal computer e uno smartphone abbia senso e se possa avere un senso non solo per consumare ma anche per creare contenuti.
La risposta, per quanto riguarda l’iPad, è duplice. È nato con la vocazione alla creazione di contenuti in maniera leggera, utilizzando fin da subito la suite iWork, che Steve Jobs volle pronta (a costo di resettare per la prima volta quella per Mac OS X, e poi resettarla di nuovo quando l’ha portata anche nel cloud) e che ha fatto la differenza nella possibilità di uso del tablet.
L’ecosistema degli sviluppatori e le richieste degli utenti hanno poi fatto il resto. L’iPad ha cambiato il mondo, mentre Android rimaneva una sorta di visore intelligente, Microsoft decideva di fare portatili con il touch (come i Surface) e Google si schiantava sui ChromeBook, che non riescono a trovare una loro identità. Ma il mondo poi ha cambiato l’iPad.
Come è cambiato
Perché pubblico e sviluppatori hanno cominciato a spingere sempre di più i limiti del sistema operativo dell’iPad, cercando di introdurre funzionalità, applicazioni, modalità d’uso che andassero oltre quelle previste da Apple. Soprattutto, che andassero oltre i limiti imposti dalle regole dell’app store. Regole che a lungo hanno limitato le possibilità di crescita, nonostante l’iPad lentamente si diversificasse. La tavoletta magica da 9,7 pollici diventava mini (7,9 pollici) e poi diventava big (12,9 pollici) e poi cominciava a sfornare le versioni pro da 10,5 e poi da 11 oltre a quella da 12,9 pollici. Un susseguirsi di tagli diversi di schermo che sono qualcosa di più che non semplici cambiamenti di estetica.
Cos’è iPad oggi
Perché Apple ha introdotto due anni fa anche la linea di apparecchi capaci di far cambiare completamente passo al mercato, rispondendo a quello che il mercato e noi utenti le chiedevamo. Dopo aver introdotto le tastiere pieghevoli, migliori o peggiori che siano di quelle delle terze parti, ha messo anche una prima e poi una seconda generazione di penne Bluetooth a disposizione del suo tablet, facendo loro superare i limiti dei pennini basati su un grosso pezzo di plastica morbida che deve fare contatto in maniera resistiva e imprecisa, come il polpastrello del dito. E infine, con l’iPad Pro è arrivato un tipo di apparecchio molto diverso da come era il primo iPad ma che, ci piace pensare, fosse una logica conseguenza della sua evoluzione anche per Steve Jobs.
Sono due anni che la presenza di due iPad dotati di presa Usb-C ha mandato in corto circuito tutto il popolo dei dispositivi iOS di Apple. L’attesa è ovviamente per la conversione anche dei telefoni e degli altri tablet di Apple alla Usb-C, che domina tutti i Mac ed è l’unica forma di connessione per gli iPad Pro. Ma non compare negli accessori di massa, cioè AirPods e AirPods Pro, facendo capire a chi vuole provare a fare un ragionamento di previsione razionale anziché immaginifica che il futuro prossimo non passa ancora per la Usb-C nel mondo dei telefoni di Apple.
Tuttavia, la Usb-C per l’iPad Pro ha senso. È la possibilità di agganciare le velocità di passaggio dati (e le tensioni di alimentazione) necessarie a gestire dischi esterni, e quelle di banda necessarie a far girare monitor esterni. Dentro gli iPhone e gli altri iPad non ci sono le necessità per farlo: gli adattatori che collegano Lightning a monitor e proiettori hanno al loro interno i chip che servono a fare la conversione del segnale audio e video altrimenti inutilizzabile. E Apple preferirebbe sinceramente che si usasse AirPlay 2, anziché i cavetti. Inoltre, le prese Lightning utilizzano sostanzialmente lo standard Usb 2, che non ha potenza e velocità necessarie a un uso intenso e professionale, soprattutto nei confronti delle periferiche o degli accessori più sofisticati di quelli forniti ai personal computer e all’iPad Pro.
Tutto questo ha spostato la lancetta di uno dei più grandi dibattiti tra nerd della tecnologia (e non solo) di questi ultimi anni: la grande domanda è se l’iPad possa sostituire un computer oppure no. Ogni anno che passa c’è qualcuno che ci prova, e anche noi qui a Macity abbiamo fatto vari tentativi, e ogni anno che arriva ci sono novità che fanno pensare che sia sempre più probabile e possibile.
Ci sono già adesso vantaggi e svantaggi nel farlo. Di base c’è il bisogno di utilizzare fin troppe accortezze e caveat che fanno pensare che forse non è veramente possibile. Oppure sì, dipende da cosa bisogna fare. E i problemi sono a metà fra quello che l’iPad può fare e quello che invece il mondo gli impedisce di fare, con siti formati in maniera tale che non si possa interagire, documenti ingestibili, formati incompatibili. E tante altre piccole cose che sono frutto non soltanto delle limitazioni dell’iPad, come detto, quando dell’incompatibilità del mondo con questo apparecchio.
Può sembrare un discorso arrogante, dopotutto è come dire che il mondo non vuole venire incontro all’iPad. Ma entro certi limiti è proprio così che funziona: prima i personal computer, poi i web browser, e infine gli smartphone hanno cambiato il mondo anche perché il mondo ha accettato di farsi cambiare e anzi, gli è corso incontro. Ricordate quando non si poteva entrare nei siti delle pubbliche amministrazioni a meno di avere un Pc con Windows? Oppure quando i siti erano irraggiungibili dallo smartphone? Oppure i formati proprietari richiesti dagli uffici e dagli enti, che non ammettevano alternative?
Oggi tutto questo è in buona parte passato. Però buona fortuna se volete utilizzare WordPress a un buon livello, oppure se volete compiere una serie di operazioni che richiedono il bilanciamento tra più documenti di applicazioni differenti.
L’evoluzione del sistema operativo dell’iPad ha creato il contesto in cui questo può avvenire. Le app ci stanno arrivando. Le scomodità sono tante, non ultima la mancanza di una vera tastiera di serie, se il vostro mondo è fatto di cose da scrivere. Ma il vero monte da superare è quello fuori, fatto dalla combinazione delle abitudini degli utenti e delle richieste dei fornitori di servizi, di chi costruisce gli ambienti per i quali i computer vengono creati e all’interno dei quali vengono usati.
La rivoluzione degli apparecchi Post-PC di cui parlava Steve Jobs sembra quasi passata in secondo piano. La teoria è stata raccontata in qualche keynote e ha coinvolto tutti gli apparecchi che non erano personal computer di Apple (cioè Mac). Ovverosia dall’iPod del 2001 fino all’Apple Watch, passando per iPhone e iPad. C’è chi ci mette anche lo smart speaker di Apple, ma forse se ne può anche fare a meno. Ed è una teoria che oggi va poco di moda, perché sembra che con il cloud sia cambiato tutto.
A Steve Jobs il cloud non piaceva tanto, così come Apple non ha mai “capito” il cloud nel senso di Amazon, Google e Microsoft (per tacere di Facebook) perché ha poggiato il suo modello di business su altri imperativi e altre concezioni. Un peccato dal punto di vista degli analisti, ma anche degli storici perché in realtà Apple è stata una pioniera dei servizi erogati tramite i suoi server (ricordate iDisk?). Invece, mancando il visionario Steve Jobs, capace di spiegare e convincere sulla logicità dell’evoluzione delle tecnologie, è sembrato che la prevalenza del cloud, cominciata in realtà poco prima o poco dopo la scomparsa dello stesso Jobs ed esplosa sicuramente nel secondo decennio del nuovo millennio.
Senza contare che è un oggetto bellissimo, che sembra uscito fuori da un film di fantascienza anche oggi, dieci anni dopo il suo lancio. Una immagine potentissima e un memento che il futuro è già arrivato, solo che è stato sparpagliato in modo disomogeneo.
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