Le novità Apple appena presentate dimostrano che a Cupertino si usa ancora la ricetta sulle tecnologie Apple voluta dal suo celebre fondatore. Non prendetela come una legge immutabile. Ogni regola ha le sue eccezioni, insomma. Tuttavia, ancora una volta il keynote del 7 settembre ha riconfermato una buona abitudine della Apple che risale ai tempi di Steve Jobs: le innovazioni prima si introducono con un certo clamore, e poi si sfruttano al massimo estendendole a ciascun prodotto (se la cosa ha senso).
Prendiamo il caso della resistenza all’acqua, requisito necessario alla commercializzazione di un orologio anche smart che la gente abbia minimamente voglia di indossare. Non è la capacità di andare sott’acqua, ma semplicemente quella di resistere per un po’ di tempo alla presenza dell’acqua. Il primo Apple Watch era così: poteva stare sotto un metro d’acqua per mezz’ora e non si danneggiava. Oggi con il nuovo Apple Watch series 2 acquista la capacità di essere usato in piscina quando si nuota, tanto che ci sono nuovi workout specifici, ma la prima qualità viene ereditata dall’iPhone 7.
Quest’ultimo non è certo subacqueo, non lo si può usare per fare il bagno insomma, ma diventa resistente alla polvere e all’acqua. Insomma, simile alla prima generazione di Apple Watch. E questo fa pensare che, ovviamente, tempo un anno massimo due, arriverà anche un iPhone capace di resistere a un tuffo in piscina con relativa nuotata o a un naufragio. Perché? Lo chiede il mercato e soprattutto Cupertino ci ha già lavorato sopra. Cosa le impedisce di spostare queste tecnologie Apple dagli orologi ai telefoni? E poi magari ai tablet e poi ai computer portatili?
La stessa cosa è accaduta con 3D Touch e la tecnlogia aptica, che ha fatto il giro dai trackpad dei notebook Apple, agli smartwatch e adesso ai telefoni. Apple innova, crea know how, crea componenti di rottura rispetto al resto del mercato e poi lavora per sfruttarli al massimo, integrandoli all’interno di prodotti diversi. Questo si vede anche quando si parla di software, con tecnologie che da iOS passano a macOS oppure viceversa, e alla fine si integrano tra loro. Passi avanti continui, prima in una direzione e poi in tutte le altre.
È affascinante e in un certo senso tranquillizzante vedere come questo modello di lavoro sull’innovazione “massimizzata”, che aveva voluto Steve Jobs, sia rimasto nel DNA di Apple anche dopo la sua scomparsa e oggi venga utilizzato dai suoi dirigenti e ingegneri per portare avanti l’evoluzione dei prodotti Apple. MacBook Air e MacBook 12 non sarebbero stati costruiti se non ci fosse stato un lavoro di personalizzazione delle batterie iniziato con gli iPhone e gli iPad. E tante tecniche di lavorazione mutuate ad esempio dai Mac Pro oltre che dai MacBook Pro e dagli Air sono proprie degli iPhone e iPad, e viceversa.
Certo, il cerchio non è completo, non tutto passa a tutto perché spesso non è necessario. Però la logica di integrazione hardware e software tocca anche i servizi: basta vedere la collaborazione via iCloud tra le app di iWorks sia su iOS che macOS, oppure il sistema di autenticazione single sign on dei nuovi auricolari AirPods, che potrebbe aprire la strada alla gestione delle app su più apparecchi in modo molto semplificato.
Apple quindi innova: alle volte nelle grandi cose, sempre nelle piccole cose e nei particolari. Quelli che potremmo pensare secondari ma che invece fanno la differenza di questa azienda.