Mark Zuckerberg con un videoclip preregistrato ha presentato due cose: la sua idea di metaverso per il futuro di Facebook e poi il cambio di nome dell’azienda in Meta. Ci sono un po’ di cose che si possono dire al riguardo, partendo dalla scelta fatta per il nome “meta” che è sia l’iniziale di “metaverso” che il prefisso di greco antico – così ha detto Zuckerberg – che indica “beyond”, cioè “oltre”.
“Meta” in Greco Antico
In realtà il significato è più complesso e semplice al tempo stesso. Il significato originale di “μετα” (“meta” in greco classico) è “dopo” e non “oltre”, ma i fraintendimenti sono numerosi e ci sono stati già nell’antichità.
Ai tempi di Aristotele, ad esempio, i libri non avevano titoli come i nostri, chiaramente stabiliti e costruiti per attirare un potenziale lettore-acquirente. All’epoca erano raccolte di scritti indicati con una parola chiave o con intere frasi. Fu il filosofo Andronico di Rodi, che visse quasi tre secoli dopo il famoso filosofo, riordinando le opere del maestro a chiamare “Metafisica” il trattato che veniva in ordine “dopo” quello della “Fisica”. Quindi, il significato era quello di “libro dopo il libro sulla fisica” (e infatti è più orientato a questa disciplina che alla non ancora esistente Metafisica).
Invece, una interpretazione sviata, da cattivo studente del liceo classico, ha trasformato questo nel fortunato nome per qualcosa che non esisteva: la metafisica, qualcosa che va al di là della fisica. Ed è il significato che lo stesso Zuckerberg vuole. È importante saperlo.
I significati successivi e molto suggestivi, che esistono sia in italiano che in inglese e nelle altre lingue occidentali moderne, per cui meta comincia a significare “oltre”, “al di là” arrivano infatti per cercare di creare parole composte con significati nuovi che sono stati pensati per la prima volta. Alcune volte pensati male.
Essere “meta”
Nel tempo, per traslato un discorso “meta” indica qualcosa che va al di là della cosa stessa e che è quindi autoreferenziale. La meta-matematica, oppure utilizzare dei metalinguaggi (linguaggi che operano a un livello più elevato dei singoli linguaggi reali, descrivendone il funzionamento senza essere linguaggi veri e propri essi stessi) e cose del genere.
Volete sentirlo dire in un modo diverso? Non è soltanto complicato: è volutamente vago e complicato. Meta, infatti, a partire da una serie di fraintendimenti e arricchimenti di significato molto spesso casuali, è una parola che si presta bene a trasformare e rendere confusa qualsiasi cosa, trasferendo su chi la sente l’idea che è lui che non ha capito, che non ne sa abbastanza, che non è preparato. Proprio quello che vuole Zuckerberg.
La bolla del metaverso
Perché adesso siamo entrati in piena “bolla” da metaverso, abilmente orchestrata dalla potenza di fuoco della macchina per le relazioni esterne di Facebook, che è comunque un colosso enorme che sa come usare i social. Nella Silicon Valley è pieno di startup e giovani aspiranti imprenditori o impiegati delle aziende più cool del settore tech che parlano di “meta-questo”, “meta-quello” e soprattutto metaverso. Peccato che siano trent’anni che il termine viene definito e studiato: ci sono dietro libri su libri dei grandi maestri negli studi sulla sociologia della comunicazione che hanno dato gambe e profondità a questo termine.
Il metaverso è tutt’altro che uno sconosciuto. È un fallimento molto ben conosciuto: un’idea letteraria (da Snow Crash a Ready Player One passando per Matrix ma volendo anche ai libri sul cyberspazio di William Gibson, Bruce Sterling, Paul Di Filippo e decine di altri) che sappiamo avere un valore molto particolare e “visivo”, che deve rendere sia nella prosa che sul grande schermo. E che in pratica non funziona. Almeno, non come nel cartone animato che Zuckerberg ha fatto vedere. Perché Zuckerberg ha fatto vedere una animazione preregistrata e doppiata, tipo film Pixar, e non una animazione in tempo reale né tantomeno qualcosa di interattivo per chi era apparentemente coinvolto.
La storia dei metaversi
I metaversi sono qualcosa che si fa vedere con aggettivi allusivi e un periodare fecondo, se si tratta di un romanzo, oppure con immagini spettacolari se si tratta di un film di fantascienza. Nessuna delle due esperienze è però quella adatta a una esperienza immersiva realmente intrigante. Ci sono decine di studi, portati avanti sia guardando le comunità virtuali dei forum e di Second Life che altri soggetti di studio in ambienti controllati e con metodologie scientifiche, che indicano prevalentemente i limiti e le impossibilità della tecnologia.
Anche parlando di magia anziché di tecnologia (come spesso purtroppo la cattiva fantascienza fa, mescolando le carte con il fantasy), la cosa non funziona: il motore della realtà virtuale sono le interfacce sonore e aptiche, non quelle visive. E l’immersione non può essere un modo “fisico” per attraversare mondi e contesti, perché è semplicemente il metodo meno pratico e comodo per farlo che si possa immaginare.
La gente che cammina in ambienti virtuali e gesticola viene bene in film come Minority Report, ma quelle non sono le interfacce adatte al mondo reale non più di quanto sia credibile un inseguimento in auto in un episodio di Fast and Furious. E questo è solo il front-end del metaverso la sua interfaccia.
Il back-end sta sia dal lato dei server che dovrebbero far girare il tutto (connessioni magiche, server magici, anche qui impossibili ma stile Hollywood) sia dal lato del cranio dell’utente, che viene cablato direttamente con la macchina. Ve lo immaginate? In un’epoca in cui soprattutto gli Stati Uniti sono da un lato subissati da tecnologie che sembrano magiche e dall’altra da fake news che parlano di realtà magiche inesistenti, la grande macchina per la persuasione mondiale che costruisce le narrazioni dominanti sta diventando “meta” e si sta arrotolando su se stessa. Altro che occhiali magici, il futuro è l’interfaccia neurale. Che, se anche avventura potesse veramente esistere e funzionare, verrebbe usata per far saltellare degli impallinati travestiti da personaggi di Fortnite per vedere l’opera d’arte tridimensionale (sembra un logo animato in vr di un evento Apple) o giocare a carte travestiti come in un eterno carnevale. Sul serio?
Facebook, cioè Zuckerberg, secondo questo cronista ha solo intravisto un varco e ci si sta lanciando.
Cosa serve a Mark
In questo momento Zuckerberg ha numerosi problemi che spera di solvere cambiando nome e mostrando la computer grafica da film della Pixar per un prodotto che non c’è e che Zuckerberg ammette serenamente ma sottovoce che non esiste. Dice, in sintesi: volevamo solo mostrare quali sono le componenti di qualcosa che solo in piccolissima parte oggi esiste e che forse richiederà molto tempo per diventare realtà. Tradotto: sono come i favolosi keynote (nel senso letterale di favoletta) pieni di vaporware che Bill Gates era solito far vedere al CES di Las Vegas, la grande fiera dell’elettronica di gennaio.
Quando il keynote di Bill era puntato sulle tecnologie attuali, falliva miseramente (e ci sono decine di casi in cui lui e poi Steve Ballmer hanno fatto brutte figure) mentre quando parlava di futuro Gates vendeva del vaporware: delle idee da film di fantascienza, con case di cristallo e schermi ripiegabili da 100 metri quadri, telefoni trasparenti, assistenti vocali più intelligenti di un portiere d’albergo di New York City (hint: sono estremamente svegli e attenti, molto più dei loro ospiti).
Lo scopo? Per Bill Gates era spiazzare i concorrenti, appropriarsi di interi settori prima ancora di avere la tecnologia per pensarci (avete presente il telefonino con l’interfaccia “magica”) e distrarre dai problemi concreti. I grandi lanci di cose inesistenti, di vaporware puro, hanno coinciso con periodi di crisi profonda come gli anni dei lanci di Windows Vista o prima ancora Windows ME. Agli analisti e al pubblico piace e si sorvola sui problemi concreti dei conti economici o dei prodotti del giorno, perché – si diceva – l’azienda e i suoi leader “hanno la visione”. A Zuckerberg serve questo e altro per sfangarla.
I problemi e i nemici di Facebook
Facebook infatti ha parecchi problemi molto concreti e reali, a cominciare da una base di utenti che sta invecchiando mentre i giovani non considerano Facebook minimamente perché trovano altre cose più interessanti su Internet. Poi c’è la dipendenza di Facebook dalle piattaforme Google e Apple (per i sistemi operativi) che impedisce a Facebook di toccare direttamente gli utenti ma deve sempre avere una relazione mediata da altri, che possono ridurre il suo spazio di manovra (vedi le mosse sulla privacy di Apple che taglia fuori Facebook da tantissimi dati sui comportamenti delle persone che la ingolosiscono e che abitualmente preda sui dispositivi Android).
Poi c’è il rischio di essere multati, indagati, frammentati, quasi chiusi. E le cause legali. E poi ci sono i danni per la reputazione che vengono dalla stampa e dal sentiment delle persone (soprattutto fuori da Facebook). Dopotutto, è stato scritto molte volte che Facebook è una azienda tossica per le società moderne, una specie di moderna e digitale produttrice di sigarette, che lo sappiamo che fa male ma cerchiamo di far finta di nulla grazie anche agli sforzi di lobby che l’azienda fa negli Usa. E poi che Facebook serve come piattaforma basata sull’engagement per la politica e il commercio locale, ma che in realtà è dimostrato che è ingegnerizzato per funzionare soprattutto quando il contenuto fa scandalo anziché quando stimola la riflessione e le opinioni ponderate.
Ecco dunque che Facebook è tossica perché è la piattaforma prevalente sulla quale circolano le fake news, hanno spazio i politici demagoghi, avvengono le peggiori manipolazioni degli elettori e dei gruppi sociali. Su Facebook succede di tutto, con la consapevolezza da parte dei suoi dipendenti e dirigenti che ci sono problemi sia sul benessere degli utenti più giovani che le presunte manovre recentemente rivelate di una “combine” con Google per aggirare i blocchi altrui sulla privacy (leggi Apple) e accordarsi sulle aste delle pubblicità (per far pagare di più alle piccole imprese che secondo Facebook invece soffrirebbero per l’attenzione alla privacy di Apple).
Il rischio reputazionale e l’idea di meta
Tutto questo emerge sempre più spesso sulla stampa e crea un rischio reputazionale enorme per l’azienda. Il nome è “sporcato” e va cambiato. Ecco “Meta” e la promessa di qualcosa di completamente diverso, probabilmente impossibile e se anche possibile comunque condannato al fallimento.
Tutto in nome di un fatturato miliardario e del bisogno di tenere il potere in un ambiente sempre più aggressivo che mette a rischio l’esistenza stessa di Facebook, una sorta di droga che mantiene in uno stato di costante eccitata distrazione tre miliardi di persone per consentire ad altri di avere degli spazi molto più grandi sia di manovra che di controllo.
Facebook, nonostante i miliardi in cassa e il sole della California, è un’azienda in difficoltà. La scelta di Zuckerberg, anziché risanare l’azienda e renderla migliore, è stata quella di metterle il rossetto sulle labbra per “farla bella” o, come dicono gli americani con una fortunata espressione, “to put lipstick on a pig”. Però, con un’altra fortunata espressione delle nostre nonne, chi semina vento poi sappiamo tutti cosa raccoglierà.