Apple Music Classical è arrivata su iPad. E questo, non sottovalutiamolo, fa tutta la differenza del mondo.
Sono alcuni mesi, da quando è uscita su iPhone, che stiamo utilizzando il servizio. Si tratta di una app particolare, se vogliamo anche strana, perché riprende i contenuti dell’abbonamento di Musica di Apple e li riorganizza in maniera tale che sia possibile fruirne con una differente interfaccia.
Classic però non “separa” la musica classica da quella tradizionalmente “leggera”. Anzi. Non solo compaiono su entrambe le app, ma quando si aggiorna il sistema operativo l’app di Classical rinvia a quella di Apple Music per gli aggiornamenti della privacy e altri tipi di informative di servizio. Si tratta quindi di uno strano tipo di app che “galleggia” sopra il servizio erogato da un’altra app.
Però, al di là di un paio di difetti che vedremo tra poco, Apple Music Classical su iPad è strategica e molto importante. E segnala forse una direzione che il software di Apple sta prendendo. Oltre ad essere più comoda su tablet.
L’importanza dell’idea di classica
Intanto, c’è sempre quel tema che sta in agguato dietro l’angolo quando si parla di “musica classica”. La definizione è ambigua e molto poco coerente con tutti gli studi di musicologia che tracciano l’evoluzione del fenomeno musicale dal punto di vista teorico e teorico-pratico.
Si confonde la musica classica con la musica “antica”, contrapposta alla musica leggera che viene vista come musica “leggera”, e questo deriva anche dal modo con il quale è proposto il consumo di entrambe, perlomeno in maniera più tradizionale, dall’industria culturale contemporanea. La musica classica la suonano i professori d’orchestra vestiti da sera, mentre la musica leggera la suona una band su un palco. L’opera viene rappresentata nel teatro lirico, il concerto pop o rock nello stadio.
L’idea è falsa e questa falsa dicotomia si riflette anche nel modo con il quale gli strumenti software, che sono dei semplici manufatti, entrano in relazione con la materia della musica. È vero che la musicologia ha carattere scientifico: in campo storico la ricerca si fonda sullo studio delle fonti, sia musicali, sia archivistiche. Ma l’industria discografica non è una scienza bensì una pratica e una forma di commercio. Quindi mira alla commercializzazione della musica e alla sua fruizione seguendo dei criteri ordinativi che sono quelli dei generi.
La scomparsa dei generi musicali
Solo che i generi stanno scomparendo, soprattutto nella musica leggera, per via di un fenomeno piuttosto interessante legato alla trasformazione delle pratiche di ascolto del pubblico. Non si usa più la radio o l’acquisto di dischi (nei vari formati, dal vinile al CD) ma lo streaming.
La playlist ha rimpiazzato il bisogno di categorizzare la musica per riuscire a ritrovarla (da parte dell’ascoltatore) e a identificare cosa si avvicina ai suoi gusti. Questo perché l’algoritmo dello streaming e la playlist, più o meno automatica, producono già la “forma” della musica da ascoltare che interessa, e la sorgente di fatturato per i discografici.
L’idea alla base, l’avrete capito, è ovviamente che i generi musicali siano una invenzione, perlomeno quando sono etichette super specializzate usate per taggare la musica. Sono nati con l’idea di radio commerciale nel dopoguerra e servono a tenere traccia della segmentazione del pubblico radiofonico da un lato (cosa che serve alle format radio per selezionare le orecchie da rivendere agli inserzionisti) e a organizzare gli spazi sugli scaffali nelle superfici commerciali dei negozi che vendevano musica.
Adesso, l’algoritmo sta facendo svanire le micro categorie e rimane lo spazio per la macro musica, che è sempre più legata ad artisti influenti e periodi storico-culturali che non a segmentazioni manichee. Taylor Swift è un genere, insomma, oltre che un artista e la persona dell’anno secondo la rivista Time.
Apple Music Classical su iPhone e iPad
Detto tutto questo, che non è poco tra parentesi, il ruolo della app Classical di Apple Music è fondamentale e il suo ascolto su iPad ancora di più. Il lancio su iPhone aveva colpito soprattutto i puristi perché vedevano nella app messa sul telefono l’impossibilità ad avere un vero ascolto di altissima qualità: quello consentito dall’audio hi-res loseless e dalle ultime spazializzazioni possibili con il Dolby Atmos, che sta spingendo a rimixare la musica per avere una differente presenza spaziale del suono attorno alla testa e al corpo di chi ascolta.
L’arrivo su iPad libera la possibilità (peraltro adesso raggiunta anche con iPhone 15) di utilizzare la connessione fisica USB-C per avere il massimo della velocità e banda (anche se siamo limitati pur sempre da una qualità 24/96), cosa che rende possibile tornare a essere competitivi in quel mercato dell’audiofilia di altissimo livello, che spesso sconfina nel feticismo. L’iPad, più che l’iPhone, è lo strumento ideale per diventare il cuore di una postazione di ascolto con preamplificatori, sistemi di più satelliti, equalizzatori e tutto il resto.
Il pasto nudo e la musica disvelata
In realtà, più semplicemente, la possibilità di ascolto “nuda” della musica su un moderno iPad dotato di uscita speaker stereo consente di godere molto meglio della qualità musicale anche mentre si lavora o si sta facendo altro.
Certo, nessuno si comprerebbe un iPad Pro M2 solo per ascoltare la musica dalle sue uscite audio fisiche, come nessuno lo farebbe con un MacBook Pro 16 M3 Max (e peraltro sia macOS che tvOS ancora non hanno la app Classical) ma la cosa non è un problema in questo senso.
La musica riorganizzata in una app vetrina che pesca sullo stesso database dell’altro e più ampio contenitore è comunque una opportunità perché serve in realtà a fare una cosa diversa. Serve a mostrare meglio i tag e consentire di trovare, direttamente o per associazione, quello che un sistema strutturato rigidamente ad albero e pensato per la musica occidentale di tipo pop o rock non permette: ampliare le possibilità di scoprire e trovare musica.
Il tema di fondo infatti è stato l’approccio classificatorio che si è imposto nel mondo della musica commerciale fin dagli anni dei CD. Quando è nato il bisogno di segmentare meglio i dischi di musica “leggera” le categorie della tassonomia creata dall’industria musicale sono state quelle banali del credits musicali dei dischi. C’è una persona che suona/canta, una che compone, un titolo, un album di appartenenza, un modo (dal vivo o registrato), un’etichetta discografica e poco altro.
Questi metadati sono poca roba e soprattutto nella loro rigidità cozzano con le possibili compilazioni di altri modi per raccogliere la musica o semplicemente trovarla. Vanno bene per un disco dei Beatles e dei Rolling Stones (e hanno costruito le loro fortune contabili grazie alle rendicontazioni dei risultati di queste categorie) ma non per uno della Deutsche Grammophon o della Decca né per una etichetta di musica popolare indiana, semplicemente perché la musica non è pensata e organizzata secondo quelle categorie.
I rapporti di forza dell’Autore occidentale
L’ideologia stessa che sottostà a questo approccio è fortemente economica perché è orientata a privilegiare il ruolo dell’Autore (invenzione occidentale nata nel Settecento) e al limite dell’esecutore. Un limite che imbibe tutta la musica “leggera” occidentale per via della retrostante industria e che invece viene rimesso in discussione (pesantemente) con l’emergere delle playlist e degli algoritmi.
Ecco dunque che l’operazione di Apple mira a dipingere in maniera differente questo approccio e, pur restando dentro lo scatolone tradizionale di Musica, permette di ridefinire e rimappare i confini della musica in senso “classico”. E lo fa ottimamente, rompendo barriere che non sono banalmente di genere musicale, bensì di organizzazione strutturale della musica stessa attraverso una tela complessa di tag che permettono di tessere un profilo differente per gli ascoltatori in fase di discovery e di recollection.
Se questa fosse un’analisi marxista, proviamo a banalizzare così il discorso, potremmo dire che la struttura delle tag è quella che individua i rapporti di forza e permette di organizzare delle differenti sovrastrutture di fruizione. A questo punto il fatto che la app sbarchi anche su iPad è una grande vittoria per tutti.
E che poi dia la possibilità di vedere un po’ meglio la grafica delle copertine è buono anche se non ancora abbastanza: e questo tra le altre cose è il più grosso problema della gestione della musica digitale: la sua incomprensibile allergia allo skeurmofismo delle cover che invece la renderebbe più facilmente “accettabile” è l’unico difetto che dovrebbe essere superato rapidamente oltre alla necessità di “sanitarizzare” l’output delle playlist e degli album scaricati dal lato Classica e che ricompaiono pari pari in quello di Musica tradizionale, rompendo un po’ gli equilibri.
Tutto quello che c’è da sapere su Apple Music Classical è in questo approfondimento di macitynet. Chi vuole valutare se il servizio di streaming offre contenuti e funzioni desiderati può leggere la nostra recensione a questo indirizzo.