Nel 2017 la Commissione aveva inflitto un’ammenda di circa 2,4 miliardi di euro a Google per aver abusato della sua posizione dominante su vari mercati nazionali della ricerca su Internet favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti rispetto a quello dei suoi concorrenti.
Poiché il la Corte di giustizia europea ha, in sostanza, confermato tale decisione e mantenuto l’ammenda di cui sopra, Google e Alphabet hanno proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, che è stata respinta da quest’ultima, confermando così la sentenza del Tribunale.
Secondo la Commissione, in tredici paesi dello Spazio economico europeo (SEE), Google aveva privilegiato, sulla sua pagina di risultati di ricerca generale, i risultati del proprio comparatore di prodotti rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti.
Google aveva infatti presentato i risultati di ricerca del suo comparatore di prodotti in prima posizione e li aveva valorizzati all’interno di «box», accompagnandoli con “informazioni visive e testuali attraenti”.
Per contro, i risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti apparivano soltanto come semplici risultati generici (presentati sotto forma di link blu) ed erano, per tale motivo, contrariamente ai risultati del comparatore di prodotti di Google, suscettibili di essere retrocessi da algoritmi di aggiustamento nelle pagine di risultati generali di Google.
La Commissione ha concluso che Google aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generale su Internet, nonché su quello dei servizi di ricerca specializzata di prodotti e le ha inflitto un’ammenda di circa 2,4 miliardi per il pagamento della quale Alphabet, in quanto socia unica di Google, è stata ritenuta responsabile in solido per un importo di EUR 523.518.000.
Google e Alphabet avevano contestato la decisione della Commissione dinanzi al Tribunale dell’Unione europea. Con sentenza del 10 novembre 2021 il Tribunale ha, essenzialmente, respinto il ricorso e, in particolare, confermato l’ammenda.
Per contro, il Tribunale ha ritenuto che non fosse dimostrato che la pratica di Google avesse avuto effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, sul mercato della ricerca generale. Di conseguenza, è stata annullata la decisione della Commissione nella parte in cui tale istituzione aveva constatato una violazione del divieto di abuso di posizione dominante anche per quanto riguarda quest’ultimo mercato.
Google e Alphabet hanno allora proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, mediante la quale esse chiedono l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui ha respinto il loro ricorso, nonché l’annullamento della decisione della Commissione.
Con la sua sentenza in data odierna, la Corte rigetta l’impugnazione e conferma dunque la sentenza del Tribunale.
La Corte ricorda che “il diritto dell’Unione sanziona non l’esistenza stessa di una posizione dominante, bensì soltanto lo sfruttamento abusivo di quest’ultima”. In particolare, “sono vietati i comportamenti di imprese in posizione dominante che restringano la concorrenza basata sui meriti e siano dunque suscettibili di causare un pregiudizio alle singole imprese e ai consumatori. Tra tali comportamenti rientrano quelli che, con mezzi diversi dalla
concorrenza basata sui meriti, ostacolano il mantenimento o lo sviluppo della concorrenza su un mercato in cui il grado di concorrenza è già indebolito, proprio in ragione della presenza di una o più imprese in posizione dominante”.
La Corte precisa che “non si può certo ritenere, in generale, che un’impresa dominante che applichi ai propri prodotti o ai propri servizi un trattamento più favorevole di quello che essa accorda a quelli dei suoi concorrenti tenga, indipendentemente dalle circostanze del caso di specie, un comportamento che si discosta dalla concorrenza basata sui meriti. Essa constata tuttavia che, nel caso di specie, il Tribunale ha effettivamente stabilito che, alla luce delle caratteristiche del mercato e delle circostanze specifiche del caso in esame, il comportamento di Google era discriminatorio e non rientrava nell’ambito della concorrenza basata sui meriti.
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