Eccoci, ci siamo. Microsoft ha inizia a far bollire la rana Copilot. Perché se pensavate che i contenuti generati dai dipendenti fossero cattivi, aspettate di vedere cosa sta per succedere.
La prima mossa è stata semplice: un aumento del 5% del prezzo di Microsoft 365 Copilot. Piccolo, quasi impercettibile, come l’incremento di temperatura in una pentola dove nuota ignara una rana. Ma il piano è molto più ambizioso e complesso di quanto non sembri. Satya Nadella, il boss di Microsoft, ha dichiarato che l’AI porterà 10 miliardi di dollari di ricavi nel prossimo trimestre. Non è solo una previsione finanziaria: è il preludio di una trasformazione radicale del lavoro d’ufficio.
Non è HAL 9000, può fare peggio
A differenza dei computer malvagi della fantascienza, Copilot non minaccia di prendere il controllo delle porte di sicurezza o di espellere gli umani nello spazio. La sua influenza è molto più sottile e pervasiva: sta lentamente ridefinendo il concetto stesso di produttività e creatività nel mondo del lavoro.
La promessa è allettante: automatizzare le attività ripetitive, generare bozze di documenti, suggerire idee durante le riunioni. Ma dietro questa apparente semplificazione si nasconde un rischio molto più grande: la graduale atrofizzazione delle capacità cognitive dei lavoratori. In un lampo stanno evaporando i campioni della scrivania, le menti acute e rese tali da infiniti report da leggere, tonnellate di memo da scrivere, migliaia di mail a cui rispondere. Veri atleti dell’atto impiegatizio, che adesso vanno in tranche guardando i gatti mentre la loro produttività cresce in maniera esponenziale.
Non c’è bisogno di una ribellione delle macchine quando gli umani stanno volontariamente cedendo il controllo delle loro facoltà mentali. Un documento alla volta, una presentazione dopo l’altra, Copilot sta diventando non tanto un assistente quanto un sostituto del pensiero creativo.
Il karaoke aziendale prende forma
La trasformazione è già visibile nelle riunioni virtuali, dove le persone utilizzano sempre più spesso suggerimenti automatici per porre domande o formulare risposte. È come un gigantesco karaoke aziendale dove nessuno canta più con la propria voce.
I manager lodano l’efficienza e la standardizzazione della comunicazione, ignorando il fatto che stanno creando un ambiente dove l’originalità diventa l’eccezione anziché la norma. Le presentazioni PowerPoint generate dall’AI si susseguono una dopo l’altra, indistinguibili nella loro mediocre perfezione.
Nelle chat di Teams, le risposte pre-formulate si accumulano come strati di vernice industriale, coprendo qualsiasi traccia di spontaneità o pensiero divergente. La “produttività aumentata” diventa sinonimo di conformità algoritmica. Anche i dipendenti più “stitici” o quelli dalla produttività ossuta, rachitica, diventano all’improvviso flautolenti al limite dell’asfissiamento. Tutti che producono come se non ci fosse un domani.
L’inflazione delle idee è iniziata
Come in ogni sistema dove la produzione diventa troppo facile, anche nel mondo delle idee aziendali sta emergendo un fenomeno inflattivo. La quantità di contenuti generati cresce esponenzialmente, mentre il loro valore intrinseco diminuisce.
Rapporti, memo, analisi di mercato vengono sfornati a ritmo industriale, ogni documento perfettamente formattato e grammaticalmente ineccepibile (tra l’altro, se volete sapere un trucco: è così che si capisce se Copilot ha scritto la mail: sintassi e grammatica non hanno una grinza). È come se l’intero ecosistema aziendale stesse sviluppando una forma di bulimia informativa.
La facilità di generazione porta a una svalutazione del pensiero originale. Le idee veramente innovative, quelle che nascono dalla frizione creativa e dal disagio produttivo, rischiano di venire sepolte sotto una valanga di contenuti “ottimizzati”.
L’eco digitale rimbalza all’infinito
Il fenomeno più inquietante è il ciclo di feedback che si sta creando. I contenuti generati dall’AI vengono utilizzati come input per generare nuovi contenuti, in un loop potenzialmente infinito di rielaborazione algoritmica.
Le riunioni vengono riassunte automaticamente, questi riassunti vengono trasformati in punti chiave, che a loro volta alimentano nuove presentazioni e documenti. È come se l’intero sistema aziendale stesse sviluppando una forma di parossistica auto-referenzialità digitale.
La conseguenza è una progressiva omogeneizzazione del pensiero aziendale. Le sfumature, le intuizioni non ortodosse, le prospettive divergenti vengono gradualmente filtrate dal processo di ottimizzazione algoritmica.
La grande dimissione cognitiva avanza
Mentre le aziende celebrano i guadagni di produttività a breve termine, si sta verificando un fenomeno più preoccupante: una sorta di dimissione collettiva dalle responsabilità cognitive. Perché sforzarsi di pensare quando un algoritmo può farlo al posto nostro?
Questa tendenza sta creando una nuova forma di dipendenza tecnologica. Non è più solo una questione di automazione delle attività ripetitive: si sta automatizzando il processo stesso del pensiero critico e ovviamente della creatività. Una forma di sotto-sviluppo di quelli che Thomas Mann avrebbe mandato direttamente nel sanatorio in cima alla montagna incantata, senza biglietto per il ritorno.
Non è questo il problema però. La cosa che dovrebbe farci ululare alla luna per la disperazione ogni notte, anche quelle in cui il cielo è coperto, è un’altra. L’impatto a lungo termine potrebbe essere devastante. Come un muscolo che non viene esercitato, le capacità cognitive rischiano di atrofizzarsi. La generazione di professionisti che si sta formando ora potrebbe trovarsi completamente dipendente dall’AI per qualsiasi forma di elaborazione concettuale.
Verso una consapevole resistenza digitale
La soluzione non è il rifiuto totale dell’AI, ma piuttosto lo sviluppo di una nuova forma di consapevolezza digitale. È necessario riconoscere quando l’automazione diventa una stampella anziché un supporto. Non è facile, direte voi, ma è possibile (perché bisogna essere ottimisti, dopotutto).
Le aziende più lungimiranti stanno già iniziando a stabilire linee guida per l’uso responsabile dell’AI. Non si tratta di limitarne l’utilizzo (quello sarebbe come vietare il crack nelle favelas: illusorio e avventato), ma di preservare e valorizzare quelle attività che richiedono un genuino apporto umano. Insomma, coltivare e far crescere in armonia anziché reprimere e basta.
Il futuro del lavoro dipenderà dalla capacità di trovare il giusto equilibrio tra efficienza algoritmica e creatività umana. La vera sfida non è resistere al cambiamento, ma guidarlo in una direzione che amplifichi anziché sostituire le capacità umane. E forse, proprio come la rana della metafora iniziale, è arrivato il momento di accorgersi che l’acqua sta diventando troppo calda.
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