I prompt ormai sono come una formula magica che si studia nelle accademie dell’intelligenza artificiale stile Harry Potter. In questo caso l’ultimo incantesimo è: “Trasforma questa immagine nello stile dello Studio Ghibli” e il demonietto cartesiano che vive nei server di OpenAI (anzi, quelli di Azure di Microsoft, per essere precisi) si mette all’opera e qualsiasi immagine viene trasformata magicamente in un fotogramma che sembra uscito dalle matite degli artisti dello Studio Ghibli.
Bastano pochi secondi a ChatGPT per processare foto private, scatti iconici, meme storici o persino tragici eventi del passato, restituendoli con quegli inconfondibili tratti delicati e colori pastello che hanno reso immortali “La città incantata” o “Il mio vicino Totoro”. Il fenomeno ha invaso ogni piattaforma social con una velocità impressionante, tanto che lo stesso Sam Altman, CEO di OpenAI, ha cambiato la sua immagine profilo su X con una versione “ghiblizzata” di se stesso. La febbre Miyazaki digitale non accenna a placarsi, diventando forse il caso più eclatante di adozione di massa di una funzionalità AI degli ultimi anni.
Il nuovo GPT-4o rappresenta una svolta radicale, l’ultima di una serie di svolte radicali: non si limita più a generare immagini tramite DALL-E, ma è un modello “omni” che comprende e produce autonomamente contenuti multimediali. Era stato anticipato, perché l’onere di capire cosa vuole l’utente deve sporsi dal cervelletto dell’individuo al silicio della macchina. Via tutto l’attrito e qualsiasi distinzione analitico-funzioanle. Ci pensa lei, la magica OpenAI.
E così, a differenza dei concorrenti come Gemini di Google o Grok di xAI, il risultato raggiunge una qualità che lascia a bocca aperta anche i critici più severi, riproducendo con precisione chirurgica quello stile sognante e magico tipicamente ghibliano. Le richieste sono state talmente numerose che OpenAI ha dovuto posticipare il rilascio della funzionalità per gli utenti gratuiti, come confermato dallo stesso Altman su X: “Le immagini in ChatGPT sono molto, molto più popolari di quanto ci aspettassimo. E avevamo aspettative piuttosto alte“. La corsa alla “ghiblizzazione” ha letteralmente mandato in tilt i server dell’azienda, costringendo i tecnici a rivedere la roadmap di lancio.
Il paradosso Miyazaki
L’ironia della situazione raggiunge vette vertiginose se si pensa che Hayao Miyazaki, co-fondatore dello Studio Ghibli, è notoriamente uno dei più accaniti oppositori dell’intelligenza artificiale. In un documentario del 2016, il maestro giapponese reagì con disgusto a una demo di animazione AI, definendola senza mezzi termini “un insulto alla vita stessa” e giurando che mai avrebbe incorporato simili tecnologie nelle sue opere. Oggi, l’estetica meticolosamente artigianale di un uomo che disegna ancora a mano ogni fotogramma (lasciandoci la salute, la sua e quella dei decine di veterani che collaborano ai suoi film) viene replicata in pochi secondi da algoritmi addestrati su milioni di immagini. Il paradosso si materializza in ogni pixel: la tecnologia più avanzata e complessa del pianeta imita lo stile di chi ha dedicato la vita a celebrare la semplicità, la natura e la magia dei piccoli gesti umani.
L’entusiasmo dell’utenza medio nasconde però una questione spinosa sul fronte legale. OpenAI sostiene che ChatGPT può replicare “lo stile di uno studio” ma non quello di “singoli artisti viventi”. Questa distinzione appare come una forma di equilibrismo giuridico, considerando che Miyazaki, 83 anni, è ancora vivo e vegeto, e disegna come se non ci fosse un domani. Gli esperti di proprietà intellettuale come Evan Brown dello studio legale Neal & McDevitt sostengono che i modelli AI operano in una zona grigia: lo stile artistico non è esplicitamente protetto dal copyright, ma è plausibile che OpenAI abbia addestrato il suo modello su milioni di fotogrammi dei film dello Studio Ghibli. Le cause intentate dal New York Times e altri editori contro OpenAI per violazione del copyright potrebbero creare precedenti fondamentali anche per questo caso.
La questione non è peregrina. Infatti, il dibattito di fondo tocca il cuore stesso della creatività nell’era digitale: l’imitazione è la forma più sincera di ammirazione o un furto culturale mascherato? Il pubblico appare spaccato tra chi celebra la democratizzazione dell’arte e chi denuncia l’appropriazione indebita del lavoro altrui. Oltre 400 creativi di Hollywood hanno recentemente firmato una petizione contro OpenAI e Google, accusandoli di voler “indebolire o eliminare” le protezioni sulle opere protette da copyright per addestrare i loro sistemi AI. Mentre i tribunali sono chiamati a dirimere queste situazioni potenzialmente foriere di risarcimenti a sei zeri, milioni di utenti continuano imperterriti a trasformare ricordi personali, eventi storici e meme virali in versioni animate dallo stile inconfondibile di Miyazaki.
Un’esplosione culturale globalizzata
La rapida adozione di questa funzionalità ha generato risultati sorprendenti e talvolta inquietanti. Se si fa un giro su X, l’ex Twitter che nell’era Musk-Trump è diventato una specie di isola della Tortuga in cui trovare di tutto, dai pirati ai nani e alle ballerine, inclusi contenuti osceni e vietati ai minori senza alcun freno, si trovano anche tonnellate di meme e immagini fatte da milioni di utenti di OpenAI. Dalle scene dell’assassinio Kennedy alle recenti immagini dell’attentato a Trump, passando per ritratti di Elon Musk e meme iconici come il “ragazzo distratto”, nulla sembra sfuggire alla rielaborazione in stile Ghibli. Persino i brand hanno fiutato l’affare, utilizzando queste immagini per scopi promozionali sui loro canali social. La potenza del fenomeno testimonia come lo stile visivo creato da Miyazaki e dai suoi collaboratori rappresenti ormai un linguaggio estetico universalmente riconoscibile, capace di attraversare generazioni e culture diverse. L’anima del Giappone tradizionale filtrata attraverso la sensibilità artistica dello Studio Ghibli è diventata, paradossalmente, uno dei codici visivi più globalizzati del pianeta.
Altman stesso ha commentato ironicamente questa esplosione virale in un post su X: “Sono io: mi ammazzo di lavoro per un decennio cercando di creare una superintelligenza per curare il cancro o roba simile, per primi 7 anni e mezzo non importa a nessuno, poi per 2 anni e mezzo tutti mi odiano per qualsiasi cosa, mi sveglio un giorno con centinaia di messaggi: ‘guarda ti ho trasformato in stile Ghibli, ahaha’“. La frustrazione e l’autoironia del CEO rivelano quanto sia imprevedibile il comportamento degli utenti di fronte alle tecnologie di frontiera. Mentre l’azienda puntava su applicazioni “serie” dell’intelligenza artificiale generativa, il pubblico ha decretato il successo di una funzionalità apparentemente frivola ma emotivamente coinvolgente.
Che sia un semplice fenomeno passeggero o l’inizio di una nuova era nella relazione tra arte tradizionale e tecnologia, la Ghiblimania digitale è una sveglia che suona senza fare sconto per nessuno. Davanti ci sono delle domande cruciali sul futuro della creatività. Come in un film di Miyazaki, ci troviamo sospesi tra mondi apparentemente inconciliabili: tra l’autenticità dell’arte manuale e la riproducibilità algoritmica, tra il rispetto dell’opera originale e la libertà di reinterpretazione, tra la sacralità dell’ispirazione e la democratizzazione degli strumenti creativi. E forse, proprio come nei finali aperti dei capolavori di Miyazaki, non esiste una risposta definitiva, ma solo la consapevolezza che stiamo navigando in territori inesplorati dove la magia della creatività umana e la potenza della tecnologia cercano un equilibrio tanto fragile quanto necessario.
Vi ricordiamo che la generazione con la modalità “Studio Ghibli” funziona solo con la versione di Chat GPT 4.0 a pagamento.