L’Oxford Dictionary ha scelto “Brain Rot” come parola dell’anno 2024, letteralmente “putrefazione del cervello”, un termine che descrive il presunto deterioramento dello stato mentale causato dall’eccessivo consumo di contenuti online considerati banali o poco impegnativi. La scelta arriva dopo un’analisi accurata dei dati linguistici e una votazione che ha coinvolto più di 37mila persone, con un aumento dell’uso del termine del 230% rispetto al 2023.
È solo una grande scusa?
Abbiamo chiesto un commento al professor Giovanni Boccia Artieri, sociologo della cultura e della comunicazione dell’università di Urbino. E lui ci mette in guardia da facili conclusioni: Boccia Artieri sottolinea infatti come questa definizione scelta come parola dell’anno presupponga “una realtà di decadimento sociale e cerebrale associato in modo deterministico all’uso dello smartphone per stare online”. Ma è un’idea nuova? E soprattutto, è un’idea che ha senso?
In realtà è un approccio che ricorda vecchi pregiudizi: “Come quando genericamente – ma convintamente – abbiamo sostenuto che la tv fa male ai bambini, accorgendoci poi che la tv generalista degli anni ’80 ha avuto connessione con la politica più diretta di quanto i cartoni animati con robot giganti abbiano traviato le giovani generazioni”.
Secondo Boccia Artieri, in questa scelta vox populi dell’Oxford Dictionary “c’è un po’ un atteggiamento accusatorio sbrigativo – neanche tanto implicito – che ha il solito sapore consolatorio: è colpa dello scrolling, e non ci possiamo fare più di tanto”.
Etimologia di un neologismo
Vale la pena notare anche un’altra cosa: questo termine non è nuovo. La storia di questa espressione è infatti sorprendentemente antica e risale al 1854, quando Henry David Thoreau lo utilizzò nel suo libro “Walden”. Lo scrittore americano criticava la tendenza della società a svalutare le idee complesse a favore di quelle più semplici. Il paragone era con il “potato rot”, il marciume delle patate che affliggeva l’Inghilterra dell’epoca. La metafora è sopravvissuta fino ai giorni nostri, assumendo nuovi significati nell’era digitale. Il termine ha acquisito particolare risonanza sui social media, specialmente tra la Generazione Z e la Generazione Alpha.
Il presidente di Oxford Languages, Casper Grathwohl, ha evidenziato come la scelta rifletta le crescenti preoccupazioni della società riguardo l’evoluzione della vita virtuale. L’espressione viene utilizzata principalmente per descrivere gli effetti dello scrolling compulsivo sui social media. Il termine è diventato particolarmente popolare su TikTok, dove gli utenti lo usano per descrivere la sensazione di intorpidimento mentale dopo ore di contenuti “leggeri”. La piattaforma stessa è diventata un simbolo di questo fenomeno, con contenuti sempre più brevi e frammentati.
Il lavoro degli scienziati
La comunità scientifica ha iniziato a studiare seriamente gli effetti del consumo eccessivo di contenuti online sulla cognizione. Uno studio recente pubblicato sulla National Library of Medicine ha dimostrato come Internet possa produrre alterazioni acute e permanenti nell’attenzione e nella memoria. Gli effetti si manifesterebbero anche a livello della materia grigia cerebrale. Insomma, il cervello un po’ in effetti potrebbe non diciamo “marcire” ma quantomeno “andare a male”. Le ricerche continuano a esplorare le conseguenze a lungo termine dell’esposizione prolungata ai contenuti digitali. L’interesse per questi studi è in continua crescita.
Il fenomeno ha assunto dimensioni tali che negli Stati Uniti alcuni addetti alla somministrzione di terapie comportamentali (eufemismo per indicare i terapeuti e counselor) hanno iniziato a pubblicizzare trattamenti specifici contro il “brain rot”. Descrivono una condizione caratterizzata da annebbiamento mentale, letargia e riduzione della capacità di attenzione. Propongono soluzioni come la disintossicazione digitale e limiti al tempo trascorso davanti agli schermi. Il marketing della salute mentale si è rapidamente adattato a questa nuova “patologia” sociale. Il business della digital detox è in piena espansione. Impressionante l’idea che possa essere trasformato con una metafora organica e fortemente semplificatoria in una normale problematica che si cura con l’equivalente di una “lavanda gastro-mentale”.
Il chi è chi
Ironicamente, o forse sin troppo rivelatoriamente, sono proprio le generazioni più giovani a utilizzare maggiormente il termine, mostrando una sorta di autoconsapevolezza critica. La Generazione Z ha fatto proprio il concetto, utilizzandolo spesso in chiave umoristica sui social media. Il termine viene frequentemente associato ad altri neologismi della cultura digitale giovanile: questa appropriazione linguistica rivela un atteggiamento più complesso di quanto possa sembrare.
È interessante notare come il termine sia entrato nel linguaggio mainstream proprio attraverso i canali che critica. L’espressione si è diffusa principalmente sui social media, gli stessi accusati di causare il “marciume cerebrale”. Questo paradosso evidenzia la complessità del rapporto tra società e tecnologia digitale. Si potrebbe dire che è quasi tutto un magna-magna, che poi per forza che le cose marciscono “dentro”. La critica ai social media avviene principalmente sui social media stessi: impossibile non ripensare anche a Guy Debord e alla sua “Società dello spettacolo”.
“In che mondo viviamo, signora mia”
L’evoluzione del termine “brain rot” da critica filosofica ottocentesca a fenomeno virale contemporaneo riflette i cambiamenti della società. Il passaggio da Thoreau a TikTok racconta una storia di continuità nelle preoccupazioni sociali, una forma all’ennesima potenza di benaltrismo. Il timore per il deterioramento intellettuale rimane costante attraverso le epoche. Le forme e i mezzi cambiano, ma le ansie rimangono simili. La società continua a cercare capri espiatori per i propri mali.
La scelta dell’Oxford Dictionary solleva quindi questioni più profonde sul nostro rapporto con la tecnologia. Il “brain rot” potrebbe essere più un sintomo che una causa dei nostri problemi cognitivi. La vera sfida non è demonizzare gli strumenti digitali, ma comprendere come utilizzarli consapevolmente. Il dibattito resta aperto, ma forse è tempo di superare le accuse più facili e cercare risposte più articolate, come ci fa capire anche Boccia Artieri.