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L’AI non parla la lingua di Apple perché Tim Cook non è Steve Jobs

Che Apple abbia un problema, anche bello grosso, con l’intelligenza artificiale non è un novità di oggi. Che questo problema affondi almeno parzialmente le sue radici nella cultura aziendale è stato sottolineato da The Information non più tardi di giovedì, ma ora conferme arrivano anche dal New York Times.

A mettere il dito nella piaga, non sorprendentemente, è Tripp Mickle un nome che vale la pena di citare perché autore di L’eredità di Steve Jobs. Tutta la verità sulla Apple, un libro nel quale approfondisce  l’argomento di una Apple tecnocratica dominata dalla logica invece che dalla creatività che oggi gioca ogni carta sul profitto invece che sull’innovazione.

Uno di questi tecnocrati, si intuisce dall’articolo del NyTimes sarebbe stato Luca Maestri accusato di essere uno dei responsabili del ritardo sull’Ai.

Mentre Apple spendeva miliardi prima su Apple Car e poi su Vision Pro, e il settore machine learning arrancava cercando di capire come gestire l’esplosione dell’Ai, l’ex CFO di Apple sottovalutava la priorità dettata dal salto trasformativo imposto dall’Intelligenza Artificiale

Mastri, dice il Nytimes, avrebbe negato a Giannandrea che guidava il team di Machine Learning tutte le risorse richieste (e per altro approvate da Cook) per rinnovare, acquistandoli esternamente, gli obsoleti data center di Apple costituiti da 50mila server vecchi di cinque anni. Il consiglio di Maestri sarebbe stato quello di innovare internamente, dando maggior efficienza ai propri chip.

Apple ha smentito parzialmente la versione di Mickle (il budget sarebbe stato quello richiesto da Giannandrea anche se soddisfatto in tranche e Maestri non avrebbe consigliato di sviluppare internamente i chip), ma resta il fatto che, per un periodo, la Mela ha dovuto usare i data center di Amazon e Google, arrancando anche per altre scelte sbagliate (come quella di costruire internamente i proprio LLM).

Ma anche Tim Cook avrebbe le sue colpe. Con indicazioni vaghe ha lasciato i team senza una direzione chiara, questo mentre i dirigenti si dividevano su chi dovesse occuparsi di Siri e i ranghi si sguarnivano di numerosi ingegneri e ricercatori chiave nel campo dell’intelligenza artificiale e del machine learning, tra cui diversi specialisti coinvolti nello sviluppo di modelli linguistici interni.

Alcuni di loro sono passati a realtà più dinamiche come OpenAI, Google DeepMind e Anthropic, attratti da una cultura più aperta alla sperimentazione e da progetti con obiettivi chiari e visibili che non trovavano in Apple.

“Apple deve capire cosa è andato storto, perché qui non si tratta solo di riorganizzare le sedie mentre il Titanic affonda”, dice Michael Gartenberg, ex product marketer in Apple e oggi analista tecnologico.

“Se mai c’è stato un esempio di promesse esagerate seguite da risultati deludenti, è proprio Apple Intelligence”. Per la prima volta dopo anni, Apple non è riuscita a consegnare un prodotto annunciato, e questo — nel suo ecosistema ultra-controllato — è un segnale che qualcosa, nel motore, si è inceppato.

La risposta su cosa è andato storto la fornisce implicitamente Mickle ed è quella che ha già espresso nel suo libro: il vero nodo strutturale che sta appesantendo Apple è la sua cultura attuale.

Dopo la morte di Steve Jobs, Apple è diventata un’azienda estremamente efficiente dal punto di vista economico, capace di trarre ogni singolo dollaro possibile dal suo mercato ma anche molto conservativa e incapace di cogliere le sfide e di rischiare in nuovi mercati. Il contrario di quello che avrebbe fatto con Jobs.

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