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Apple, Amazon, Microsoft e Cisco si sono schierate con Google in qualità di “Amicus curiae”, un termine giuridico che indica un’azienda o qualcuno che non sia parte in causa che offre volontariamente informazioni al tribunale su un aspetto della legge o su altre parti del caso, per aiutare la corte a decidere. Il caso vede contrapposte Google e l’FBI; l’ente investigativo di polizia federale chiede di ottemperare a un mandato con il quale si obbliga Big G a fornire mail ospitate su server stranieri.
Non è chiaro a cosa il caso faccia riferimento ma lo scorso mese, spiega Business Insider, un giudice della Pennsylvania ha imposto a Big G di consegnare ai federali una serie di messaggi conservati al di fuori degli USA nell’ambito di una indagine su una presunta frode. Il giudice aveva scritto che la consegna del materiale non è classificabile come “sequestro” e che l’atto non presenta “interferenze rilevanti” con i “diritti di possesso” del titolare dell’account. “Sebbene il recupero di dati elettronici operato da Google dai suoi numerosi data center esteri presenti una potenziale invasione della privacy, la concreta violazione si verifica all’atto della visura” del materiale sul suolo americano, spiega Reuters.
Lo scorso anno i giudici Gerard E. Lynch, Susan L. Carney e Victor A. Bolden avevano stabilito che forze dell’ordine e inquirenti non possono basarsi sullo Stored Communications Act (SCA) del 1986 per obbligare un provider a consegnare informazioni oltreoceano. La sentenza finale spetta però alla Corte Suprema ma evidentemente la corte della Pennsylvania ha seguito un diverso modo di ragionare.
Nell’amicus brief si cita un caso simile che ha riguardato Microsoft, alla quale era stato chiesto di ottenere accesso a mail memorizzate su server irlandesi. All’epoca la multinazionale di Redmond riuscì ad avere la meglio spiegando che lo SCA non tiene conto di dati memorizzati su server stranieri e che l’atto in questione era stato concepito quando internet era ancora nella sua “infanzia”.