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Apple ha costruito una backdoor in iPhone per aprire le porte alla polizia?

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Apple ha costruito una backdoor in iPhone per accedere a dati cifrati? L’ipotesi che Cupertino sia in grado di accedere ai contenuto del telefono sorpassando la protezione da password di cui si è parlato in passato, torna d’attualità in conseguenza di un articolo pubblicato oggi da C/Net, nel quale si affronta il tema delle difficoltà che la polizia deve affrontare quando si tratta di decifrare le informazioni custodite in un telefono.

Il problema negli Stati Uniti è in primo piano visto il grande numero di iPhone in circolazione e visto l’uso che ne fanno criminali e personaggi borderline. La diffusione e il vastissimo utilizzo del telefono, uniti al sistema di sicurezza integrato nel sistema operativo da Apple, rendono da una parte fondamentale e dall’altra impossibile per qualunque agenzia la decodifica dei dati, in particolare nelle ultime versioni dove si fa un uso di un chip hardware, letteralmente inespugnabile; quando capita questa necessità l’unica soluzione è rivolgersi direttamente ad Apple che ha a disposizione gli strumenti per  superare la schermata di blocco.

L’operazione deve essere avviata con estrema cautela e seguendo procedure ferree. Apple deve ricevere un documento formale da un organismo di polizia con il quale le si impone di sbloccare il cellulare. A quel punto Cupertino per legge non può rifiutarsi e procede. Nessuno però sa come questa operazione viene portata a termine; neppure la polizia sarebbe a conoscenza della metodologia seguita. Quel che è certo è che i tempi per avere un riscontro sono lunghi, anche diverse settimane (sette per un recente caso del telefono di un presunto trafficante di droga) al punto che ci sarebbe una vera e propria lista d’attesa per avere il contenuto del telefono. Secondo quanto riferisce C/Net Apple alla fine consegna alla polizia i dati salvati su una chiavetta USB che a quel punto può essere usata su qualunque computer.

I lunghi tempi lasciano immaginare che Apple non faccia uso di una vera e propria backdoor “software” anche perché probabilmente sarebbe troppo pericoloso visto che esporrebbe iPhone ad attacchi di hacker. Più probabile che a Cupertino ci sia un mix di elementi che permetterebbero lo scardinamento della sicurezza del telefono: la conoscenza profonda del sistema operativo, una qualche procedura particolare e un hardware specifico, molto più potente di quello usato dagli strumenti di indagine, che permette di trovare seppure dopo una lunga elaborazione la password usata per bloccare il telefono. Le sette settimane richieste da Apple per sbloccare un telefono sono comunque un nulla di fronte ai 25 anni che impiegherebbe la polizia per sbloccare un iPhone con un codice di 10 cifre mediante un metodo tradizionale o un attacco con forza bruta, ovvero con metodo criptoanalitico che dimezzerebbe a “solo” cinque anni i tempi richiesti.

Apple non è ovviamente l’unica società al mondo ad avere l’obbligo e un metedo per sbloccare un suo dispositivo. Google fa la stessa cosa con i telefoni Android, ma segue un metodo diverso e più rapido e meno diretto: resetta la password Google e fornisce la nuova password alla polizia. Gli agenti non sono però soddisfatti di questa pratica che lascia Mountain View più ai margini e meno coinvolta visto che non maneggia direttamente i contenuti del telefono, perché consente all’indiziato di sapere che qualcuno sta operando sul suo account.

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