In un articolo pubblicato su Vox, Matthew Yglesias si chiede se Apple non sia diventata troppo grande per andare avanti così. Andare avanti cioè con una organizzazione funzionale anziché documentale, come fanno invece i grandi colossi del pianeta.
Una organizzazione di questo secondo tipo è quella che consente di andare avanti in parallelo, costruendo linee di prodotti diversi. È quello che consente ad esempio al colosso General Electric di presentare ogni anno nuovi prodotti che vanno dai motori per aerei ai sistemi di gestione delle ferrovie, dagli strumenti per il settore minerario-estrattivo agli apparecchi medicali. Invece Apple, che ha una struttura funzionale in cui si va avanti in serie, cioè un passaggio alla volta, ha deciso di uscire dal business dei router WiFi e sono quattro anni che non aggiorna il Mac Pro, va avanti piano con gli iMac e ha creato problemi a molti creativi con i nuovi MacBook Pro, perché le risorse internet sono tutte concentrate su iPad, iPhone e servizi (tra cui le app, oltre ai download di contenuti).
La dialettica fra queste due differenti forme di organizzazione è importantissima: Apple ha basato gli ultimi venti anni della sua storia su un approccio funzionale che, quando aveva Steve Jobs al vertice, si traduceva anche nella capacità di scegliere il prodotto giusto su cui scommettere nell’anno o nel lustro successivo. Invece, l’idea di avere una organizzazione strutturata per dipartimenti e divisioni è fisiologicamente legata alle dimensioni di una struttura, che quando supera un certo livello dimensionale e di complessità non può fare a meno di avere una struttura verticale ad albero con molti rami e molti “riporti” tra il capo e gli impiegati.
Certo, ci sono le eccezioni, soprattutto nel mondo della finanza: Berkshire-Hathaway è un super gruppo miliardario di proprietà di Warren Buffett che ha solo 25 dipendenti. Anche perché il business in quel caso lo permette. Ma nel caso di una azienda come Apple? Da un lato, il produttore di telefoni, tablet e computer è uno dei più grandi produttori di hardware al mondo. Però, a parte una fabbrica negli Stati Uniti per i Mac Pro, in realtà produce altrove, grazie a partner che lavorano per lei, come Foxconn. Ha aperto un settore, quello retail, che ha portato a un fisiologico aumento della forza lavoro, ma l’aumento della forza lavoro a Cupertino da cosa dipende?
La moltiplicazione dei posti di lavoro, effetto del successo economico, è anche una concezione ottocentesca del lavoro inteso come posto all’interno del quale accumulare un esercito di lavoratori manuali o di concetto. In realtà Steve Jobs, che è quello che poi ha accelerato sul discorso dell’aumento del personale e sul piano del nuovo gigantesco campus, aveva anche teorizzato che fosse impossibile lavorare con più di 100 persone. E per questo Apple, in fase di rilancio negli anni Novanta e poi di consolidato successo con Jobs vivente, aveva un vertice molto stretto di persone che facevano tutto il lavoro di creazione dei prodotti e poi un esercito di pedoni moderatamente ampio.
L’idea è che nel settore dell’informatica bastino pochissime persone per fare la differenza. E che scegliere molto bene questi dipendenti sia la vera ricetta del successo. Talmente importante che poi il concetto si sta diluendo in una Apple dalle migliaia di posizioni aperte, di decine se non centinaia di nuovi assunti ogni trimestre. Una Apple dalle decine di migliaia di dipendenti, talmente tanti che poi bisogna assumere altri dipendenti per coordinare il tutto, altri ancora per inventarsi livelli intermedi di lavoro che diano uno scopo e funzioni a molti vecchi e nuovi.
È il paradigma della burocrazia e dell’automazione, delle rivoluzioni quando si istituzionalizzano. La domanda però va oltre l’articolo di Vox e ha piuttosto a che fare con la capacità di essere innovativi. Era davvero necessario assumere così tante persone per continuare ad essere grandi e innovativi? Davvero Apple per ridistribuire la ricchezza deve riempire campus su campus di dipendenti? Il più grande datore di lavoro al mondo nel settore privato è lo spedizioniere UPS con 400mila dipendenti. Moltissimi dei quali operano sul campo, per effettuare i prelievi e le consegne dei pacchi. IBM ne ha 377mila, che però lavorano quasi tutti nel settore della consulenza e di rapporto con i clienti. Apple con i suoi 115mila (dato del luglio 2015 oggi ulteriormente aumentato) pone un problema che andrebbe risolto: a che serve tutta quella gente?