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Apple e la privacy: un dialogo con i sordi

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Apple un po’ di anni fa aveva ragione, enormemente ragione. L’azienda, che aveva da poco avviato la vendita di libri sul suo iBook Store, aveva parlato con gli editori ed era giunta a un accordo: offrire libertà a chi fa i libri di decidere il suo prezzo anziché imporre con il peso di un controllo praticamente monopolistico del mercato il proprio prezzo, come fa invece Amazon.

L’antitrust americano si è mosso e a sorpresa ha multato Apple. A sorpresa soprattutto per noi europei, per Apple che riteneva di fare la cosa giusta (dare libertà agli editori di fare il prezzo che ritengono più giusto) e per molti osservatori. Ma non per chi sa come funziona il principio di base dell’antitrust americano: il prezzo è il re. Chi fa risparmiare l’utente ha ragione, tutti gli altri sono cattivi. Anche se chi fa risparmiare i clienti vende sottoprezzo per strozzare la concorrenza e piegarla ai suoi desideri.

Prologo per dire cosa sta succedendo adesso.

Le parole giuste, gli interlocutori sbagliati

La strategia di Apple voluta da Tim Cook, come abbiamo già detto in passato, è una strategia di diritti. Cook è un leader che non immagina la tecnologia del futuro, come faceva Steve Jobs. Per quello ci sono marketing, ricerca e sviluppo, “fellow” scienziati. No, Tim Cook ha deciso che la battaglia di Apple sotto la sua guida sarebbe stata giocata sui diritti, e fa quello che ritiene giusto e coerente con l’azienda: azzerare l’impatto ambientale, trattare bene i dipendenti e costringere le aziende partner a fare lo stesso, aprire alla diversità e a forme di inclusione e di flessibilità prima inedite. E poi difendere i diritti fondamentali dei suoi clienti. Che non sono avere i prezzi più bassi, ma veder rispettata la propria privacy e sicurezza, oltre alla qualità generale dei prodotti e servizi.

È una strategia sbagliata? Forse sì. Perché Apple ad esempio dice cose molto appassionate e giuste sulla privacy, ma parla a un mondo che ha interessi completamente diversi. E non c’è peggior dialogo di quello tra sordi.

Apple parla di diritti fondamentali delle persone nell’era digitale e la risposta è che deve ridurre la tassa sulle app, cioè il 30% che gli sviluppatori pagano ad Apple quando una loro app viene venduta. O il diritto di aprire ad altre forme di pagamento e al sideloading, cioè due modi per portare fuori dal controllo della piattaforma di Apple l’acquisto e la gestione delle app, con tutto quello che comporta.

Chi spinge e chi guarda da dietro

A spingere non sono tanto i piccoli. Sono i grandissimi che vogliono svincolarsi dalla tassa ed essere trasversali su piattaforme diverse. A Epic Games non importa niente del discorso privacy e security: vuole semplicemente che la sua piattaforma nascente possa massimizzare i profitti per i suoi azionisti.

Quindi, un’unica piattaforma trasversale, come da tempo accade nel mondo del gaming con i vari tentativi di spanconare e aprire ad esempio i giardini chiusi di Playstation e Xbox con negozi dentro i giochi che si collegano ai server aziendali per vendere altri contenuti e servizi.

Epic Games vuole giocare la carta del metaverso monetizzando fin da subito Lego e gli altri franchising, in maniera tale che ad Apple non debba andare neanche una lira. E se c’è da gestire una tecnologia di base che spacca le batterie o fa fondere i processori ma rende il gioco più attraente, Epic Games la vuole implementare senza problemi di approvazioni da parte di Apple. Anche perché l’approvazione, come abbiamo visto con la causa tra le due aziende, diventa un’arma di ricatto perché blocca la messa sul mercato del software di Epic Games.

Dietro però ci sono altri

Alle spalle di questi e alle spalle dei piccoli programmatori che vogliono più soldi (ma che senza lo store di Apple non esisterebbero) ci sono però quelli che vogliono piazzare le versioni finte di Word e di Monumental Valley, crack pieni di malware e altre finezze del genere, con app inquinate per il tracciamento e tutto quello che potete immaginare.

Mentre i big spingono per far uscire gli utenti dallo store di Apple e “riveder la luce del sole”, per così dire, l’interesse non è la tutela un po’ paternalistica dei diritti, ma il desiderio di massimizzare l’utile. Dietro ci sono, insomma, i malintenzionati che non vedono l’ora che torni il Far West, per poter fare di tutto impunemente.

Il limite di Apple

Il problema con la posizione appassionata di Apple sulla privacy e sulla sicurezza degli utenti è che le persone che attaccano la sua posizione non sono interessate alla stessa cosa. Apple vede come una tecnologia responsabile può creare un mondo connesso e conveniente, generando milioni di nuove opportunità di business, proteggendo le persone e fondendosi attorno a valori collettivi condivisi.

I critici di Apple non la vedono allo stesso modo. Nel loro mondo, la privacy e la sicurezza non sono diritti umani e i dati generati durante la nostra vita digitale dovrebbero essere un’opportunità di business per loro. Se la tua sicurezza online o il tessuto della tua società ne risente, è solo una conseguenza del fatto che fanno affari con il nostro destino. Non ci potrebbe essere una posizione peggiore e più falsa.

Al Global Privacy Summit, Tim Cook contro il sideloading

Tutta la privacy che serve

Tim Cook parla di privacy e cita i maestri: “La privacy è la pretesa di individui, gruppi o istituzioni di determinare autonomamente quando, come e in che misura le informazioni su se stessi vengono comunicate agli altri”. Sembra una cosa banale e acquisita, ma non lo è. E Tim Cook sembra un attivista matto che continua a predicare nel deserto.

Apple sostiene di dare agli utenti questa scelta. I suoi critici vogliono rendere quella scelta il più limitata possibile. Le stesse persone che sostengono che il modello di business di Apple renda la privacy e la sicurezza una merce vogliono anche costringere Cupertino a rompere entrambe.

Le argomentazioni provengano da un miscuglio tossico di forze che comprende utili idioti, egoismo finanziario, maniaci del controllo autoritario e ideologi del libero mercato. In questo contesto, le argomentazioni di Cook non vengono ascoltate.

I compromessi utili

Sempre più persone sottolineano che quello che sta facendo Apple è giusto ma non funziona, non viene ascoltato, viene fatto “male” nel senso che è troppo intransigente e non viene ascoltato. Cattive leggi danno cattivi risultati, e se Apple si ostina a opporsi e basta alla fine ci saranno cattive leggi che daranno cattivi risultati.

La strada? Quella dei compromessi costruttivi, della ricerca di un giusto mezzo. Sacrifici per mantenere un nucleo di obiettivi forti. Ridurre ad esempio il 30% di metà (15% va bene, no?) e assicurare tecnologie che rendano la piattaforma sempre più privata e sicura.

Guardando un po’ da lontano lo scenario, il quadro generale è che Apple dovrà concedere alcune delle cose che vuole difendere per proteggere in modo efficace (e si spera permanentemente) ciò che deve assolutamente difendere.

«Questo è un momento cruciale nella battaglia per la privacy», ha detto Cook. Aggiungendo: «Proteggiamo i nostri dati e proteggiamo il nostro mondo digitale. E sia chiaro che la privacy non può diventare e non diventerà una reliquia del passato». Parole sante, ma bisogna trovare il modo giusto per farlo.

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