Milano, cinema Plinio in viale Abruzzi. Un centinaio di giornalisti assiepati per una delle anteprime italiane di Avatar, il film di James Cameron a cui anche Macitynet è stata invitata (grazie ai buoni uffici di Gameloft, uno degli sponsor dell’evento e software house dei record per iPhone, oltre ad aver prodotto la versione per il telefono di Apple del gioco ufficiale che trovate partendo da qui).
à una mattinata piovosa e dover lasciare cellulare e qualsiasi altro oggetto capace di registrare in una busta sigillata innervosisce molti, ma la paura della pirateria è molto forte. Però, totalmente immotivata.
Dopo due ore e mezza di Avatar, la sensazione è che il film sia straordinario se non altro dal punto di vista degli effetti speciali e che non meriti vederlo in altra maniera che non sia un cinema con schermo tridimensionale (o uno dei futuri televisori di questo genere). Noioso portare i costosi e pesanti occhiali di Sony per tutto il tempo (che vengono prontamente recuperati all’uscita del cinema: costano circa cento euro al paio) ma straordinaria l’esperienza visiva del film che Cameron aveva progettato quasi venti anni fa e che ha aspettato solo fino ad ora a realizzare per via della tecnologia limitata del passato.
In effetti è un diluvio di computer graphic, di livello sinora inedito per realismo, complessità e “cinematicità “. Alla lavorazione del film, un vero e proprio banchetto tecnologico, ha lavorato la crema della crema del settore informatico e della ricerca in campo elettronico. Avid e soprattutto Adobe hanno avuto un ruolo centrale nelle piattaforme utilizzate giorno per giorno per la gestione del lavoro sia sul set che nella pre e post produzione. Avatar impiega un originale sistema di pre-produzione, per cui prima che venisse girato un solo fotogramma di riprese dal vivo nei mega-set realizzati a Wellington, in Nuova Zelanda, erano già stati realizzati chilometri di pellicola (cioè, terabytes di dati) in digitale. E ogni giorno veniva rimontato e mostrato in anteprima al regista americano il lavoro realizzato, per capire se le scene non dovessero essere rigirate per ottenere effetti migliori.
Straordinario poi il lavoro di resa dell’illuminazione, ottenuto da un artista del genere (di origine italiana: Mauro Fiore, della ASC statunitense) capace grazie ai sistemi 3D Fusion Camera System e agli schermi ad alta definizione di Panasonic impiegati sul set di offrire una continuità fra le scene reali e quelle sintetiche. Proprio queste ultime viene difficile chiamarle tali: Pandora, il pianeta abitato dai giganteschi Na’vi (alti più di due metri e di colore blu) è reso con un tale insieme di tecnologie di computer grafica da far impallidire praticamente tutto quel che è stato fatto sino a questo momento, sia in campo cinematografico che di animazione e dei videogame più moderni.
La storia, senza anticipare niente, è semplice: una Terra devastata dall’inquinamento e dallo sfruttamento ha scoperto Pandora, luna abitata del gigante gassoso Polypheus nel sistema di Alpha Centauri, a 4,4 anni luce dal nostro pianeta. Là esiste in abbondanza l’Unobtainium, materiale praticamente inesistente sulla Terra e fondamentale per l’industria del nostro pianeta. Comincia una gara per lo sfruttamento, che viene portata avanti da una missione privata, capace di finanziare le attività estrattive in un mondo così lontano. Siamo nel 2154 quando arriva sul pianeta Jake,caporale dei marines a riposo, paralizzato dalla vita in giù, che dovrà entrare in un “avatar”, un corpo creato mescolando una predominanza di geni della locale popolazione Na’vi con quelli umani: il trapianto è momentaneo e avviene “live” spostando l’attività cerebrale e la coscienza nella mente “bianca” dell’avatar. Che entra in contatto con la locale popolazione Na’vi, primitivi bellissimi, selvaggi e indomabili, che dovranno essere sloggiati dalle loro millenarie abitazioni nel tronco di un gigantesco albero per poter succhiare il materiale.
Viste le premesse e soprattutto l’investimento miliardario di questo film che ha già peraltro superato la barriera del primo miliardo di dollari di incassi in due settimane, c’era da temere per la storia. Invece, a sorpresa, la storia c’è, per quanto si possa discutere sull’idea di fondo, come vedremo tra un attimo. Dentro il film c’è tutto: fantasia, emozione, sentimenti, vibrazioni, vertigine. Ma ci sono anche i cloni blu dei nativi americani, la lingua inventata con perizia che alla fine suona tanto “primitivo ma saggio”, il mito del buon selvaggio (cioè l’essere altrettanto complesso e pure più ricco di noi, perché ha capito meglio come va la vita: una cosa dura, semplice e bella, in cui si uccide solo per bisogno e ringraziando la creatura del dono che ci fa con la sua carne). Il tutto condito dallo splendore di un mondo virtuale che a memoria del vostro cronista – tra film, animazioni e videogiochi – finora non ha eguali. Basta vedere gli insetti che brulicano e svolazzano da tutte le parti nelle prime inquadrature di Pandora per capire di che cosa stiamo parlando. L’essere alieno forse non l’abbiamo creato ancora perfettamente, ma il pianeta-meraviglia, elettrico e figlio dei fiori, sì.
Alla fine del film in sala sarebbero in pochi quelli a cui non verrebbe voglia di andare su Pandora per sempre, in mezzo ai tizi blu alti due metri e mezzo. Però, all’interno della creazione di Cameron, quanta ideologia, quanto dogmatismo, quanta “politically correctness”. Che palle, questi americani…