La storia dello speaker Echo che spopola nelle case anche in Italia, potrebbe essere moralmente ed eticamente discutibile: secondo un rapporto del Tech Transparency Project infatti alcuni fornitori di Amazon si affiderebbero ai lavoratori dei numerosi “centri di rieducazione” in Cina per produrre i dispositivi Echo e gli accessori tecnologici della linea AmazonBasics.
Sono perlopiù musulmani uiguri, kazaki e uomini appartenenti ad altre minoranze etniche a costruire i dispositivi Amazon per conto di almeno cinque fornitori cinesi a cui si affiderebbe il colosso degli e-commerce, «sollevando interrogativi riguardo l’esposizione dell’azienda nella repressione cinese delle minoranze nello Xinjiang» scrivono gli autori del rapporto.
Amazon dichiara che i suoi fornitori «non devono fare affidamento ai lavori forzati» e che «non tollera che i suoi fornitori traffichino coi lavoratori o che li sfruttino attraverso minacce, forza, coercizione, rapimento o frode», ma come dicevamo la lista dei suoi fornitori racconterebbe una storia diversa.
Secondo un’indagine condotta l’anno scorso dal The Information, due dei fornitori citati in questo nuovo rapporto – per la precisione Luxshare Precision Industry e AcBel Polytech – utilizzati anche da Apple: entrambe le aziende hanno negato di avere a che fare con fornitori che sfruttano i lavori forzati, anche se le prove suggeriscono il contrario.
«Amazon rispetta le leggi e i regolamenti di tutte le giurisdizioni in cui opera, e si aspetta che i fornitori aderiscano ai nostri standard per le catene di fornitura. Prendiamo sul serio le accuse relative alle violazioni dei diritti umani, comprese quelle che fanno uso o esportano il lavoro forzato. Ogni volta che troviamo o riceviamo prove di questo tipo, agiamo» ha dichiarato Erika Reynoso, portavoce di Amazon.
L’Australian Institute of Strategic Policies ha scoperto che molte grandi aziende come Adidas, Gap, H&M, Microsoft, Nike, Sony, Victoria’s Secret e Zara hanno fatto affidamento a fornitori che impiegano lavoro forzato in Cina. Amnesty International stima che la Cina tenga attualmente circa un milione di prigionieri nei campi di internamento, dove secondo le indiscrezioni sono costretti a rinunciare alla loro religione e sottoposti a lavori forzati nelle fabbriche. I campi si trovano principalmente nella regione dello Xinjiang, nella Cina occidentale, e sono attivi dal 2017.
Sia gli Stati Uniti che l’UE hanno imposto sanzioni alla Cina nel 2021, vietando qualsiasi importazione dallo Xinjiang fino a quando le imprese non potranno dimostrare di non utilizzare più il lavoro forzato, ma come dicevamo il rapporto svela invece che molti prodotti a marchio Amazon sono ancora prodotti nella regione dello Xinjiang. «Questo modo di fare, ben documentato» scrivono gli autori dello studio «mette in dubbio la dichiarata intolleranza di Amazon riguardo le violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno delle sue catene di approvvigionamento».
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