Il Time ha appena firmato un accordo per cedere in licenza l’uso dei suoi 101 anni di articoli e giornali all’intelligenza artificiale di OpenAI: questo significa che ChatGPT e altri modelli AI della società potranno essere addestrati con una nuova mole di articoli da cui attingere dati e informazioni su richiesta degli utenti.
Anche Google starebbe conducendo simili trattative, ma in questo caso nel mondo della musica: secondo le fonti infatti si sarebbe offerta di pagare le case discografiche per addestrare AI di YouTube con musica e canzoni di cui detengono i diritti. Parliamo di giganti come Sony Music Entertainment, Universal Music Group e Warner Records, che potrebbero essere vicine a cedere alle lusinghe di questo nuovo mercato.
Cosa c’è di nostro dentro le AI
Mel campo delle intelligenze artificiali siamo soltanto agli inizi e nessuno riesce ancora a scorgerne l’orizzonte. E il punto è che già oggi molte di queste sono state addestrate senza autorizzazione. Ci sono querele in ballo da tutte le parti, come la lettera aperta in cui più di 200 artisti chiedono protezione «dall’uso predatorio dell’intelligenza artificiale che ruba voci e aspetto di artisti professionisti, violando i diritti dei creatori e distruggendo l’ecosistema musicale».
E non va meglio per i giornali: il New York Times e diversi altri colossi dell’editoria hanno citato in giudizio OpenAI con l’accusa di violazione di copyright per aver addestrato ChatGPT con i loro articoli senza permesso. Le denunce in corso sono tante, è vero, ma per queste aziende che hanno in mano le AI pare non siano un problema: è come se le spese legali fossero nettamente inferiori ai ricavi generati dai chatbot addestrati in maniera – diciamolo pure – poco etica.
Un attacco informatico dello scorso novembre aveva dimostrato che dentro ChatGPT ci sono anche i nostri numeri di telefono e gli indirizzi email senza che nessuno gli abbia detto di poterli usare, e sapevamo già che migliaia di libri di altrettanti scrittori, ancora una volta senza alcun via libera, sono stati usati per le stesse ragioni, tanto che si parla di “un futuro realizzato costruito con basi illegali”.
E i nostri lettori ricorderanno bene che prima ancora, la stessa Apple, ha dovuto affrontare l’accusa di usare narratori di audiolibri per addestrare le voci della sua AI, anche in questo caso senza che i doppiatori sapessero nulla. E via con altre denunce, l’ultima del Center for Investigative Reporting, la più antica redazione no-profit americana, altra vittima del medesimo gioco.
Google non è da meno: ha già collezionato diverse querele, una delle tante in cui viene accusata di aver segretamente sottratto «tutto ciò che è stato creato e condiviso su internet da centinaia di milioni» di persone per mettere a punto il suo chatbot Bard.
E Meta? all’appello è presente anche il colosso di Facebook, che invece per i medesimi obiettivi usa tutto ciò che le persone hanno pubblicato sui social. In questo caso c’è il modo per fermarla, ma è una specie di specchietto per le allodole, perché il freno a mano funziona solo a metà.
Come sta cambiando il vento
E torniamo ai giorni nostri, con il Time che pare si faccia pagare, in uno scambio di favori che probabilmente gioverà ad entrambi, almeno in questa prima fase. E le maggiori etichette discografie, che solo due giorni fa denunciavano altre due AI – Suno e Udio – per generare musica con le canzoni di loro proprietà, e oggi invece valutano di farsi pagare le licenze da YouTube, anche se ad avere l’ultima parola dovrebbero ancora essere gli artisti. Il fatto è che non sembra esserci un modo per dire di no, quindi avranno deciso che tanto vale farsi pagare.
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