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Adobe vuol comprare Figma e il titolo crolla mentre la rete si ribella

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Qual è il prezzo della libertà? Perché la rete (e la Borsa) si stanno chiedendo questo. Adobe, uno dei colossi del software mondiale (a lungo la prima software house del mondo, e dipende tutto da come si considera Microsoft, per via della sua produzione di hardware) ha infatti annunciato di voler comprare Figma, la startup americana specializzata in strumenti di collaborazione per la grafica via web (ci arriviamo tra un attimo) per la cifra monumentale di 20 miliardi di dollari. La rete si sta ribellando, con virali e vere e proprie campagne dal basso che infiammano i social, mentre la Borsa annusa che qualcosa non va in questo affare e penalizza l’azienda facendo crollare il titolo del 18%, il declino più ripido degli ultimi due anni.

L’operazione annunciata da Adobe, che consiste in un mix di metà contanti e metà azioni, conferma un precedente articolo di Bloomberg che lo anticipava e se portato a termine, segnerebbe la più grande acquisizione di una società privata di software, secondo i dati compilati da Bloomberg. È ovviamente anche la più grande acquisizione di Adobe e il mercato ha ritenuto l’operazione costosa, penalizzando l’azienda creata nel 1982 da Charles Geschke e John Warnock nel garage di quest’ultimo a Los Altos (Adobe è il nome del torrente che scorre dietro la casa di Warnock) a poca distanza dal famoso garage della casa dei genitori adottivi di Steve Jobs e da quello in cui si trovavano, negli anni Trenta, Bill Hewlett e David Packard, quando nacque la leggenda delle startup della Silicon Valley.

La rivolta in rete

La vera ragione del malcontento, secondo molti, sta però non nel prezzo pagato per Figma, ma nel senso della mossa. Adobe da tempo ha assunto la posizione non molto gradevole di monopolista di fatto degli strumenti professionali per la creatività digitale. Comprando alcuni dei suoi concorrenti diretti e in alcuni casi mettendo a “dormire” le loro tecnologie, l’azienda ha in effetti stabilito un vero e proprio impero che, negli ultimi anni si è spostato sempre più rapidamente verso il Cloud, sia per cavalcare i tempi e offrire le migliori opportunità ai suoi utenti, sia per cercare di limitare la pirateria (le copie dei suoi software non funzionano più se non c’è collegamento a Internet).

Così, Adobe si trova a vendere in abbonamento la sua Creative Suite in varie configurazioni con decine di software dentro: Photoshop, Acrobat, Illustrator, Lightroom, Captivate, Cold Fusion, XD, Dreamweaver, InDesign, Spark, Premiere Elements, RoboHelp, FrameMaker e decine e decine di altri. Un colosso che secondo molti creativi in rete, ricorda decisamente l’Impero di Guerre Stellari e non certo la Ribellione. Tuttavia, una azienda per lungo tempo di grande successo.

La crisi di Adobe

Adesso Adobe, che è stata una delle aziende preferite di Wall Street per più di un decennio, è stata colpita dalla crisi tecnologica e ha visto le sue azioni perdere più di un terzo del loro valore dall’inizio dell’anno. Gli investitori sono diventati sempre più scettici riguardo al dominio della linea di software di Adobe per i professionisti della progettazione, che costituisce circa il 60% del suo fatturato.

L’azienda allora ha puntato su offerte più accessibili basate sul web, come Adobe Express, per vendere il suo software creativo a consumatori, piccole imprese e influencer dei social media. Ma l’iniziativa si è scontrata con l’attrito di nuovi concorrenti come Figma, Lightricks e Canva. E, come accadde in passato con altri nomi diventati ormai leggendari del mercato ad esempio del desktop publishing degli anni Ottanta-Novanta, ha deciso di comprarli.

I pirati e i bucanieri

Come accadeva nel Sei-Settecento, accanto ai pirati c’erano i corsari e i bucanieri: gente che aveva il patentino per combattere, come forza esterna, per questo o quel re. E poi c’erano quelli che venivano arruolati e diventavano ammiragli. La mossa di Adobe ricorda questo: la ricca Spagna dei software vuole un suo Francis Drake della tecnologia capace di riportare il pepe (e i clienti) tra le sue braccia. Quel Francis Drake è Figma.

L’azienda, con sede a San Francisco, è stata fondata circa dieci anni fa da Dylan Field e Evan Wallace. La startup ha introdotto strumenti di progettazione software basati su browser che consentono ai progettisti di di lavorare insieme in tempo reale, aggirando il processo a volte maldestro di salvare e inviare il proprio lavoro ai collaboratori utilizzando una serie di applicazioni diverse. Una specie di Google Docs del design, ma che funziona molto, molto bene.

Figma era stata stata valutata 10 miliardi di dollari nel suo ultimo round di finanziamento un anno fa. Tra i finanziatori di Figma figurano le società di venture capital Kleiner Perkins, Index Ventures e Greylock Partners. “Figma – ha detto a Bloomberg il membro del consiglio di amministrazione di Figma, Mamoon Hamid, partner di Kleiner Perkins – aveva raggiunto una dimensione tale da essere un’azienda seriamente autonoma: la strada era quella della quotazione in borsa. Tuttavia, la società giusta ci ha fatto un’offerta che non potevamo rifiutare”.

Secondo Anurag Rana di Bloomberg Intelligence, la valutazione “molto alta” dell’operazione potrebbe pesare sulle azioni di Adobe. Ha aggiunto che Figma potrebbe aggiungere meno del 2% al tasso di crescita delle vendite di Adobe e probabilmente ridurrà i margini.

Liberi o no?

Soprattutto, da molti creativi e indipendenti di nuova generazione, abituati a lavorare con competenze di programmazione e capacità tecniche molto più vicine a quelle di un informatico rispetto alle generazioni di creativi precedenti, il mondo adesso è fatto di software cloud e open, un mix tra Linux e Google.

Tutto si deve poter fare in rete e si paga solo per quello che si usa. L’opposto di Microsoft e Adobe, che invece hanno semplicemente traslocato e blindato le loro piattaforme di software inscatolato da installare e proteggere in tutti i modi con formule di abbonamento molto costose, parzialmente funzionanti e decisamente opprimenti.

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