Per molti è stata come la Fiat 500 o la Lambretta del Dopoguerra: il primo mezzo di locomozione in rete. Il MacBook bianco, erede diretto dell’iBook bianco (lanciato nel 2001, pochi mesi più di 10 anni fa) era il più umile, robusto, efficiente e compatto amico di chi per la prima volta metteva i piedi in rete. Macchina onesta e sincera, con un guscio in policarbonato che non faceva sconti per nessuno, il MacBook bianco non è più in vendita sull’Apple Store online e si trova con il singhiozzo come fondo di magazzino in qualche negozio oppure comparirà con tutta probabilità in un paio di “ondate” tra gli apparecchi ricondizionati che spesso Apple mette in vendita (e che Macity tempestivamente segnala). A ucciderlo, diciamoci la verità, è stato il MacBook Air e l’insopportabile successo di questo genio della leggerezza che viene venduto a prezzi concorrenziali. Tant’è che i 949 euro della macchina entry level (MacBook Air 11 pollici, dotazioni al minimo) sono il vero e proprio biglietto da visita della fine del MacBook bianco.
Non c’è da rimpiangerlo, per carità: si può avere più potenza e meno peso con la versione 13 pollici dell’Air che costa 1.249 euro. Un computer potente ed efficace. Oppure si può prendere la portabilità estrema del modello da 11,6 pollici, dotazioni spartane (ma era così anche il MacBook bianco) con una portabilità invidiabile, in competizione con l’iPad. Non c’è da rimpiangerlo, ripetiamo, però un ricordo a questa ineffabile macchina da combattimento si può ben dare. L’iBook/MacBook bianco era stato la macchina di partenza per molti. Costo limitato, potenza discreta, robustezza da vendere, dotazione di porte eccezionale: c’era tutto, dalla Firewire sino alla connessione Wi-Fi di serie. Se si va abbastanza indietro nel tempo, alla primissima generazione di iBook quella nata nel 1999 con forme tondeggianti a ciambella, si trova il primo computer con USB e Wi-Fi di serie (manca ancora la FireWire, che arriverà nel primo aggiornamento dell’anno successivo) e un trackpad ancora di tutto rispetto. Se si va avanti, al maggio del 2001, ecco che sbarca come un marziano il primo iBook dalle forme moderne, dotato di doppia USB, scheda video ATI Radeon, processore G3 “robusto” (ben 500 Mhz), disco massiccio da 10 Gigabyte (il triplo rispetto alla generazione precedente) e per l’ultima volta CD/Dvd con cassettino retrattile, che poi verrà sostituto dalla tradizionale feritoia a scomparsa.
Come gli estimatori delle 500 o della Vespa, che sanno come si fa una “doppietta” nel primo caso o come si cambia marcia senza affaticare il filo della frizione nel secondo, anche l’iBook aveva i suoi punti deboli da conoscere, valutare e stimare. Ad esempio, i contatti che passavano attraverso l’articolazione fra coperchio e corpo del computer: ad aprirlo troppo spesso o con troppa foga si finiva per rompere il cavo del monitor che passava lì dentro, creando guazzabugli incoerenti nello schermo e portando a singolari problemi (ad esempio, l’abbattimento della ricezione del Wi-Fi, la cui antenna era nella cornice del monitor). C’è poi chi ricordava il doppio formato, dodici e quattordici pollici, come una incredibile possibilità di scelta. Gli schermi, religiosamente quattro terzi, hanno fatto alla fine il “salto”, probabilmente per ottimizzare l’acquisto dei pannelli e la produzione delle schede madri, in direzione dei più diffusi 16:10 usati dal resto della gamma. C’è ancora chi ricorda il quattordici pollici, enorme e pesantissimo, un vero “mulo”, capace di grande resistenza con una componentistica paragonabile a un iMac più che a quella di un portatile.
Gli intenditori cercavano la finezza, soprattutto nella serie iBook ma anche in quella dei primi MacBook. Come la possibilità di intervenire sul firmware per sbloccare la sola modalità “mirroring” dello schermo e poter usare il piccolo portatile bianco come fosse stato un computer fisso: a schermo chiuso e collegato via cavo a un monitor esterno, con duplicazione di schermo o modalità clamshell. Come la 500, lo si voleva pompare e bombare in tutti i modi possibili. Abbiamo conosciuto tanti utenti smanettoni che ne hanno fatto il mediacentre della loro automobile, ad esempio, installando qualche vecchio MacBook sull’Audi o sul SUV.
Con il passare del tempo il MacBook è diventato uno strumento sempre più potente, anche se un passo indietro rispetto ai MacBook Pro. Il guscio in policarbonato si è purificato dalle prime lavorazioni, acquistando in lucentezza e purezza, arrivando ad essere persino nero, resistendo di più all’azione del tempo e aprendo a fogge più fini. In pratica, portando la forma del MacBook ad essere molto vicina per purezza e finezza, a quella dei MacBook Pro Unibody, scavati nel metallo. Non si può dire che il livello fosse davvero lo stesso del MacBook Pro, ma quasi.
Oggi vedere per l’ultima volta le macchine in stato “vanilla” sui banchi di qualche venditore mette nostalgia. È un pezzo di passato che se ne va, con i ritmi accelerati dell’industria informatica che rende obsoleto in 12 mesi quello che invece durava cinque anni. Il MacBook bianco è durato dieci anni e più, dodici se si va fino alla vecchia “ciambellona colorata” lanciata nel 1999. Una vita sotto tutti gli standard. Una vita che adesso è arrivata alla fine. La nuova generazione di MacBook Air li manda definitivamente in pensione. Almeno, fino a quando qualcuno dentro Apple non deciderà che è arrivato il momento di un revival della plastica e rilancerà il nostro vecchio, fedele amico. Chi ancora ne ha un esemplare in casa, lo conservi. È già modernariato. Un amico che non si butta via.