Ricordate quando ci siamo innamorati dello streaming, promettendoci “mai più pubblicità”? Ebbene, è ora di svegliarsi dal sogno. L’era dello streaming senza interruzioni sta volgendo al termine, e il motivo è semplice: il denaro. Anzi, la sua scarsità. Infatti, con l’aumento della concorrenza e la saturazione del mercato, le piattaforme di streaming stanno riscoprendo il fascino irresistibile degli spot pubblicitari.
Amazon ha rotto il ghiaccio
Prime Video, ad esempio, ha introdotto le interruzioni pubblicitarie lo scorso aprile, temendo un esodo di massa degli abbonati. Sorpresa: gli utenti non sono fuggiti. Anzi, la mossa è stata così ben accolta che Amazon sta già pensando di alzare ulteriormente l’asticella, introducendo non solo più spot tradizionali, ma anche nuove forme di pubblicità come il “product placement” e gli annunci “shoppable”, che permetteranno di acquistare direttamente i prodotti mostrati nei contenuti. Una vera e propria chiusura del cerchio per il più grande e-commerce del pianeta.
Ma perché questo ritorno al passato? La risposta sta nei numeri. Il mercato dello streaming è ormai saturo, con una decina di servizi che si contendono un numero limitato di abbonati. Da Netflix a Disney+, da Apple TV+ a Paramount+, passando per i servizi di nicchia come Chili e quelli più tradizionali come RaiPlay e Mediaset Infinity (nel nostro Paese), fino ai colossi dello sport come Sky e DAZN, la competizione è feroce.
In questo scenario, aumentare significativamente il numero di abbonati è diventato un’impresa titanica. Anzi, molti utenti cancellano il servizio non appena terminato il periodo di prova o la promozione di turno. Di fronte a questa realtà, le piattaforme hanno una sola via d’uscita: aumentare i ricavi per utente in un altri modo. E quale modo migliore se non reintroducendo la cara, vecchia pubblicità?
Più FAST di così si muore
Il fenomeno non si limita ai giganti del settore. Stanno emergendo i cosiddetti servizi FAST (Free Ad-Supported Streaming Television), piattaforme gratuite che mimano la struttura dei canali televisivi tradizionali, finanziate interamente dalla pubblicità.
I nomi li conoscete: Pluto TV, Rakuten TV, Tubi, The Roku Channel. Sono nomi che stanno diventando sempre più familiari, con app che offrono un’alternativa sia alla TV tradizionale che ai servizi di streaming a pagamento. È un chiaro segnale che il pubblico, nonostante tutto, è disposto ad accettare la pubblicità in cambio di contenuti gratuiti o a basso costo.
Tra i tanti litiganti YouTube gode
Ma c’è di più. Mentre i servizi di streaming tradizionali lottano per mantenere la loro posizione, un gigante inaspettato sta dominando la scena: YouTube. Secondo recenti dati di mercato registrati da Nielsen negli Stati Uniti, la piattaforma di Google ha superato per la prima volta la soglia del 10% dell’audience televisiva complessiva, raggiungendo il 10,4% degli spettatori totali lo scorso luglio.
Un traguardo che nemmeno i colossi come Netflix (fermo all’8,4%) sono riusciti a raggiungere. E la tendenza sembra essere la stessa anche in Europa. Complessivamente, i servizi di streaming coprono ormai metà dell’audience televisiva totale, un dato che fa riflettere sulla rapida evoluzione delle abitudini di consumo mediatico.
Quando mancano le idee e la qualità
Questo ritorno alla pubblicità non è solo una questione di numeri, ma riflette anche un problema di qualità dei contenuti. Le piattaforme di streaming stanno investendo massicciamente in nuove produzioni, ma spesso la qualità sembra essere orientata più a soddisfare le metriche degli algoritmi che non a conquistare realmente il pubblico.
Inoltre, la scorta di vecchi prodotti “da cassetta” si sta esaurendo. I grandi archivi di film e serie TV del passato, come quelli di Paramount, non vengono più concessi in licenza ad altre piattaforme. I proprietari preferiscono sfruttarli direttamente, contribuendo ulteriormente alla saturazione del mercato e alla frammentazione dell’offerta. È il motivo per cui esiste non solo Paramount+ ma anche Pluto TV.
La pubblicità 2.0
In questo scenario, sembra che stiamo assistendo a un paradossale ritorno al passato. Le piattaforme di streaming, nate come alternativa alla TV tradizionale, stanno gradualmente adottando modelli sempre più simili a quelli che volevano superare. La battaglia sui prezzi si sta spostando sulla qualità tecnica (HD o 4K) e sul numero di connessioni contemporanee, mentre gli spot pubblicitari diventano la norma. È un’evoluzione che solleva domande importanti sul futuro dell’intrattenimento digitale e sul ruolo che noi, come spettatori e consumatori, giochiamo in questo ecosistema.
La triste realtà, perlomeno per chi arriva da anni di televisione di flusso, è che a quanto pare il sogno di un intrattenimento senza interruzioni sia destinato a rimanere tale. La realtà economica del mercato dello streaming ci riporta inesorabilmente verso un modello in cui la pubblicità gioca un ruolo centrale. Come spettatori, ci troviamo di fronte a una scelta: accettare questo nuovo equilibrio o cercare alternative.
Una cosa tuttavia è certa: in questo gioco, il prodotto siamo ancora noi. I nostri occhi, il nostro tempo e la nostra attenzione sono la vera merce di scambio. I servizi di streaming stanno cambiando modello di business: non vendono più prodotti di qualità a poteniali abbonati. Adesso invece vendono spettatori agli inserzionisti usando i prodotti come specchietto per le allodole. Le allodole siamo noi, ovviamente.
Per questo forse è arrivato il momento di chiederci se siamo disposti a pagare questo prezzo per l’intrattenimento o se è giunto il momento di ripensare completamente il nostro rapporto con i media digitali. Nel frattempo, prepariamoci a rivedere quegli spot che pensavamo di aver lasciato nel passato. Bentornati nell’era della pubblicità 2.0.