A suo tempo anche Napster fece così. All’inizio era il covo dei pirati, da quel sistema percolava la musica di molte generazioni e l’emorragia stava rendendo l’industria discografica uno zombie. Poi, all’improvviso, devastato dalle cause legali, Napster divenne “legale” e cercò di riciclarsi con un modello di business frequentabile: abbonamenti, vendita musica, sistemi legali insomma che però non incontrarono i gusti del pubblico, nel frattempo concentratosi sull’iTunes store. Da allora, Napster è diventato storia.
Oggi è la volta di Pirate Bay, il sito del nord Europa da cui provengono però anche motivazioni politiche: l’era della libertà , il bisogno di difendere la propria privacy digitale, il diritto a far passare i bit in rete senza che nessuno possa sindacarne il contenuto, la rivoluzione culturale di una generazione che vuole mangiare e bere senza pagare il conto all’oste. Pirate Bay non è collegato al partito dei pirati o al Pirate Bureau, ma forse qualche legame c’è, se l’ideologia è simile.
Fatto sta che, dopo aver subito una dura sconfitta legale, dopo aver cercato di aggredire il mondo del video online con VideoBay, una sorta di YouTube alternativo, dopo aver offerto asilo ai ribelli digitali iraniani, schiacciati dalla censura degli Ayatollah, adesso arriva inspiegabile e come un fulmine a ciel sereno la notizia che i proprietari anarcoidi e da centro sociale di Pirate Bay vendono tutto per 7,7 milioni di dollari e salutano.
A prendere posizione dietro alla consolle dovrebbero essere quelli di Global Gaming Factory X, azienda svedese che ha tutta l’intenzione di rendere presentabile e commerciabile la fama dei pirati della rete. In rete come nella vita niente è per sempre: speravamo solo che Pirate Bay sarebbe durato un pochino di più…