Se l’avesse fatto intravedere Apple, magari nelle mani di un redivivo Steve Jobs, il mondo intero starebbe urlando al miracolo e al campionato di innovazione. Tutti penserebbero “come abbiamo fatto a vivere senza finora” e via dicendo. Invece non succede, nonostante la stessa Lenovo, dopo il primo momento di spaesamento, abbia deciso di far circolare sempre più foto del suo prototipo di due anni fa.
Si tratta del Pocket Yoga, le cui specifiche tecnologiche ci sono sconosciute, nonostante probabilmente sia mosso da un processore Atom e abbia specifiche non dissimili da quelle del Sony Vaio P, le cui fattezze mima pur aggiungendo anche uno schermo touch e quindi un pennino con il quale interagire senza bisogno di aprire il computer (ma non è chiarissimo come funzioni il discorso dello schermo e della tastiera, perché quando il computer è chiuso, la tastiera o copre lo schermo oppure è esposta nella parte inferiore dell’apparecchio).
In realtà , come dicevamo all’inizio, nessuno grida al miracolo. C’è un motivo. Perché si guarda dalla parte giusta e non da quella sbagliata. Non è come la favoletta dell’ubriaco la notte sotto il lampione che cerca affannato qualcosa. Arriva il poliziotto di ronda e gli chiede cosa cerchi. Le chiavi, risponde lui. Sotto al lampione? “In realtà non le ho perse qui, ma almeno sotto questo lampione vedo dove metto le mani mentre le cerco”.
Il punto dell’aneddoto zen, se vogliamo ammantare in questo modo la barzelletta per omaggio al nome del touchnetbook di Lenovo, sta nel fatto che spesso e volentieri si cerca nel posto sbagliato. Non ci sbagliamo, il computer di Lenovo è molto carino e gradevole. Ma c’è un punto: se poi ci mettiamo dentro Windows Xp oppure Linux, siamo punto e daccapo. Ci vorrebbe qualcosa di particolare per renderlo davvero innovativo. Un sistema paragonabile a quello dell’iPhone, dove l’innovazione non stava solo nell’hardware ma anche nel matrimonio tra questi e il software studiato da Apple.