Il professor W. Chan Kim e la sua assistente Renée Mauborgne del prestigioso Insead francese, l’Istituto di amministrazione degli affari con sedi a Fontainebleau e a Singapore, hanno studiato per dieci anni le mosse-chiave di 150 società in 30 diversi settori industriali per un arco di tempo storico che va dal 1880 al 2000. E hanno trovato una delle possibili ricette del successo di una società : la strategia Oceano Blu.
L’oceano, nella metafora utilizzata per spiegare il meccanismo in cinque articoli per la Harvard Business Review e poi per il libro omonimo pubblicato nel 2005, è un mercato o un settore industriale. Può essere rosso se è saturato da persone e aziende che forniscono gli stessi beni e servizi, con pochissima differenziazione e margini sempre più limitati. Ma può anche essere blu, quando le se acque sono pure e limpide, senza concorrenza. Quando, cioè, ci si trova in un nuovo mercato o in un settore industriale prima inesistente. Il successo arriva trovando quindi un nuovo modo per segmentare i consumatori e così facendo “inventarsi” un nuovo mercato.
Cosa c’entra questo con Nintendo prima e con Apple poi? à la chiave del successo, volendo usare questo tipo di sguardo, per spiegare lo straordinario recupero delle due aziende. Fermiamoci su Nintendo. L’azienda, fondata a Kyoto nel 1889 come produttore di carte da gioco hanafuda da Fusajiro Yamauchi, dopo aver cercato a metà degli anni Cinquanta dii diversificare il suo business nei modi più improbabili (i famosi “love hotel” giapponesi, una società di taxi), arrivando finalmente alla produzione dei videogiochi. Nintendo, da questo punto di vista, è la singola società più vecchia ininterrottamente sul mercato, la più nota e da pochi mesi di nuovo la più grande, con 453 milioni di console vendute e circa 2,2 miliardi di copie di giochi venduti. Alla fine dell’anno fiscale 2007 (chiusosi secondo la normativa nipponica a marzo di quest’anno) ha fattorato quasi 7 miliardi di euro in un mercato che complessivamente ne vale 29, ovvero poco meno di un quarto del valor complessivo della sua industry. Ma alla fine degli anni Novanta novanta pareva spacciata. Come ha fatto ha tornare in sella?
La strategia dell’Oceano Blu parrebbe essere la spiegazione più soddisfacente. Alla fine del ciclo di vita della console casalinga GameCube, nanesco miglioramento del Nintendo 64 (nato nel 1996 e ufficialmente “morto” nel 2002), potente ma limitato e di scarso successo rispetto a Nintendo Entertainment System (1983-2003) e Super Nintendo Entertainment System (1990-2003) e al lento declino del best-seller GameBoy e poi GameBoy Advance (nato nel 1989), Nintendo era devastata dalla superiorità di mercato e tecnologica di Sony con la sua Playstation, dalla Microsoft con il fortunato “colpo” di Halo della Bungie (ex sviluppatore per Mac acquisito da Microsoft), la killer application che aveva permesso alla prima Xbox di uscire dal nido. Un altro concorrente storico del mercato delle console per videogames, cioè la giapponese Sega, era naufragata in quegli anni dietro al tentativo di inseguire la tecnologia del colosso Sony (in perdita feroce ma capace comunque di mobilitare legioni di ricercatori e una riserva di contante enorme, per sostenere la competizione della seconda generazione delle sue console con la Playstation 2) e si era dovuta ritirare dal business dell’hardware per console, mantenendo una presenza nel settore dell macchine da bar, gli arcade, e producendo i suoi giochi raccolti in vari franchise per quella che una volta era la concorrenza.
Quelli di Nintendo, però, anziché cercare lo scontro frontale come Sega avevano iniziato a pensare. La crisi di mercato, economica e di immagine (per un decennio negli Usa il termine “Nintendo” era il sinonimo di videogiochi nelle famiglie americane, come oggi lo è quello di Playstation) era tale che solo il filo di contante che continuava ad arrivare dal redditizio business delle console portatili, cioè il GameBoy diventato GameBoy Advance nel 2001, la mantenevano in vita. Il GameBoy e il GameBoy color da soli avevano venduto 118,69 milioni di unità nel mondo, mentre il GameBoy Advance (nelle versioni normale, lite e micro) da solo ne ha venduti altri 80 milioni. La prima pensata fu: investiamo là dove siamo più forti, vale a dire nel mercato delle console portatili, dove tra l’altro Sony stava cominciando a manifestare un interesse che nel dicembre del 2004 si sarebbe concretizzato nella Playstation Portable. Quindi, pochi mesi prima che Sony lanciasse la sa sfida, Nintendo arrivò a marzo del 2004 con il suo Nintendo Ds.
La chiave della strategia tecnica, rispetto a Sony che cercava di bissare il successo della prima Playstation (la ricetta di Sony è quella di promuovere una seconda tecnologia di intrattenimento insieme a quella dei giochi: Cd con Ps1, Dvd con Ps2, Blu-ray con Ps3 e lo sfortunato Umd con Psp) era all’epoca costruita su due punti che poi divennero tre. Il primo: la retrocompatibilità . Perché buttare a mare quell’oceano di titoli pubblicati per GambeBoy normale e advance? Quindi, uno slot per le vecchie cartucce, in modo che anche gli acquirenti delle vecchie console fossero invogliati a passare alla nuova mentre, allo stesso tempo, i nuovi potessero far di conto fin dal primo giorno su di un catalogo enorme di titoli già pubblicati. Inoltre, l’hardware del Nintendo Ds è capace più o meno della performance del Nintendo 64, aprendo la strada alla conversione dei titoli presenti in quella libreria (a dire la verità un po’ scarna di scarso successo) come immediatamente successe con il porting di Super Mario 64. La stessa strategia, a dire il vero, era anche di Sony che con Psp riusciva a garantire il porting di molti giochi della vecchia Ps1.
Il secondo punto era la tecnologia. Mentre Sony investiva in un embrione di sistema operativo dalle potenzialità crescenti (e aggiornabile costantemente attraverso il Wi-Fi incluso, con nuove funzioni che nel tempo stanno rendendo sempre più flessibile l’impiego della Psp) e un maxi-schermo da 4,3 pollici per fini extra-gioco (film Umd, video, foto, musica e poi podcast, navigazione internet con il browser accluso), Nintendo faceva meno ricerca sulle interfacce presentando una macchina “nuda” e destinata ad un pubblico esclusivamente di giocatori. Ma con una novità dal punto di vista tecnologico: anziché uno schermo ben due, anche se piccolini, con uno dei due “touch”. L’investimento in questo senso si rivelò cruciale perché aprì la strada a un mondo nuovo di interagire con i gioco. All’inizio la sigla DS stava infatti per “Developers System” (oggi vuol dire ufficialmente Dual Screeen), intendendo con questo dichiarare che si lasciavano liberi gli sviluppatori di realizzare i giochi innovativi che la presenza di un doppio schermo e di una periferica di input basata su touch-screen oltre agli usuali comandi da joypad (privi però di leva analogica, a differenza della Psp) e al Wi-Fi che permetteva di collegarsi direttamente in rete. In sostanza, quelli di Nintendo scommettevano sul fatto che il loro lavoro per creare una macchina piena di possibilità ci fossero, i presupposti erano messi in campo: il mercato degli sviluppatori avrebbe poi fatto succedere qualcosa.
Per buona fortuna di Nintendo qualcosa successe. Il Nintendo cominciò ad andare fortissimo e tra i nuovi giochi che si dimostrarono la chiave vincente, oltre al “solito” marchio di fabbrica di Super Mario, c’era una novità : Nintendogs, ovvero la simulazione simile a un vecchio Tamagotchi degli anni Novanta, di un cucciolo incorporato all’interno della console con il quale interagire in modo innovativo attraverso lo schermo touch, ad esempio accarezzandolo sul capo e sulla schiena, coccolandolo e via dicendo. Ci dev’essere stato qualcuno, al quartier generale di Kyoto, che un giorno si è fermato e ha pensato: “Wow, qui abbiamo qualcosa di veramente nuovo!” Ed in effetti era proprio così.
Proprio in quegli anni, a cavallo del 2004, era in atto la corsa per la produzione della nuova generazione di console da collegare al televisore. Microsoft era intenzionata a fare la corsa bruciando tutti, e in effetti la sa Xbox 360 uscì per prima, con specifiche tecniche leggermente inferiori rispetto a quello che avrebbe potuto ottenere in 18 mesi di attesa (nel campo della tecnologia dei semiconduttori, grazie alla legge di Moore, pari a una intera generazione rispetto ai cinque-sei anni del ciclo di vita industriale di una console). Era il novembre 2005, esattamente quattro anni dopo il lancio di fine 2001 della prima Xbox. Sony sarebbe arrivata in Giappone e negli Usa con la sua Ps3 solo nel novembre dell’anno dopo, ma con una potenza di fuoco dei processori più che doppia (e un costo di sviluppo che aveva quasi affondato la società giapponese). Nintendo aveva osservato le manovre negli anni precedenti per la creazione di questi nuovi mostri. Tutta la storia delle console, da questo punto di vista, era stato un inseguimento generazione dopo generazione verso potenze di calcolo sempre maggiori finalizzate a un realismo del gioco sempre più grande. Sony aveva sparigliato il gioco, come Sega del resto, non solo inserendo il 3D come elemento che definiva i giochi dell’epoca della Ps1 (prima, con Nes e Snes era stato il numero di colori e di sprite sullo schermo a definire l’eccellenza dei giochi prettamente bidimensionali o in prospettiva isometrica), inserendo la novità del CD, che permetteva di avere enormi quantità di dati pronti ad essere utilizzati per scenari, texture, musica, effetti vari. L’entrata di Sony nel mondo dei videogioco, tra l’altro, era nata per via del fallimento di una alleanza tecnologica proprio con Nintendo, che esplorava la possibilità di utilizzare al posto delle consuete cartucce i Cd nei suoi giochi: saltato l’accordo, Sony si trovò studi e prototipi a sufficienza per pensare di entrare lei stessa nel mercato e si mise a lavorare per conquistare la sua killer application, “rubando” la famosa Square (oggi Square Enix) a Nintendo per ottenere l’esclusiva dei successivi titoli del franchise Final Fantasy, prima di stretta giurisdizione Nintendo.
Quelli di Nintendo scrutavano e capivano che non avrebbero mai potuto competere con gli accordi stretti da Sony o Microsoft con i grandi produttori di silicio per ottenr i processori ultra-potenti della nuova generazione. Si misero allora a lavorare su quello che avevano in casa, vale a dire la quasi-fallimentare console GameCube (21,67 milioni di console vendute finora rispetto ai 117,89 milioni di Ps2 di Sony, ai 24 milioni di Xbox prima generazione di Microsoft e anche ai 32,93 milioni di Nintendo 64 o ai 49 milioni di Snes e 60 milioni di Nes vendute negli anni precedenti), cercando di migliorare i punti di forza. E risolvere il problema che da sempre attanagliava i prodotti da casa di Nintendo, vale a dire il formato dei suoi giochi.
Nintendo, la più rigida fra i produttori di console, per proteggersi dalla copia illegale e per massimizzare il controllo sulle terze parti produttrici di giochi (che devono sottostare ad un’ampia seri di regole e controlli da parte di Nintendo, oltre che versare una parte del fatturato di ciascun gioco venduto alla casa madre, com’è tradizione in un mercato come quello delle console in cui di norma l’hardware viene venduto sotto-costo e gli utili si fanno con la vendita dei giochi) era rimasta volontariamente all’era delle cartucce, limitate come capacità di memoria rispetto a Cd prima e Dvd poi. Il Nintendo 64 era affondato anche per questo. Con il GameCube era stata provata una mossa coraggiosa solo a metà , utilizzando un formato di mini-cd creati da Matsushita di otto centimetri di diametro e con un file system proprietario che in pratica erano sicuri più che altro per la mancanza di lettori realizzati da terze parti in grado di copiarne il contenuto e di masterizzatori per realizzarne copie illegali a basso costo. Inutile dire, tra l’altro, che anche questo come molti altri casi di “security through obscurity” venne presto superata da hacker motivati e che le copie illegali dei giochi del GameCube si trovano (se non altro nel quartiere della tecnologia, di Akihabara). Però, con la nuova console, questo problema doveva essere superato. E si doveva trattare di una console davvero innovativa e al tempo stesso molto economica, cioè nient’affatto potente.
Il Wii, nome definitivo di quello che era conosciuto con il nome in codice interno allo sviluppo, vale a dire “Revolution”, uscì a novembre del 2006 in Giappone, spinto da una crescente campagna sia pubblicitaria che di passa-parola, motivata dal fenomeno globale del successo di Nintendo DS e dalla nascita del punto chiave della strategia Oceano Blu di Nintendo, cioè il terzo punto tra quelli sopra indicati per le novità della casa di Kyoto. Piccolo per poter stare molto vicino al televisore, molto simile al Ds per design (vennero progettati nello stesso periodo), figlio diretto dell’architettura hardware del GameCube di cui è praticamente la versione 2.0, capace di far rigiocare i giochi di quella console oltre ai suoi, dotato di Wi-Fi e Bluetooth, il Wii ha una fondamentale novità rispetto alla concorrenza: una interfaccia senza fili per i controller che non hanno per la prima volta la forma usuale di joystick o joypad ma di un telecomando televisivo, di altri apparecchi dalle fogge inconsuete, anche perché al loro interno celano giroscopi ed accelerometri in grado di comunicare senza fili alla console il modo in cui vengono manipolati nello spazio. In una parola: se dirigete un’orchestra sullo schermo del televisore di casa, il Wii Remote diventa la vostra bacchetta da direttore, se giocate a golf la vostra mazza, se pescate è la vostra canna. Un cenno e i movimenti del polso si trasferiscono sullo schermo. Lo swing del golfista, la battuta del baseball: Wii ha introdotto una nuova dimensione immersiva nei giochi grazi ai suoi controller senza fili e reattivi al movimento (qualcosa che il semplice senza fili dei comandi di Ps3 e Xbox360 non possono neanche lontanamente imitare) a scapito della qualità “visiva” dei giochi, più semplici per numero di poligoni, sofisticatezza delle forme, complicatezza dei panorami, realisticità degli scenari.
Nel mezzo, sospesa tra una mancanza (di realismo visivo) e una presenza (di naturalezza dell’interfaccia), c’è il cuore pulsante della strategia. Cioè, un nuovo tipo di giochi per un nuovo pubblico. à quello che Nintendo indica come generazione Touch, vale a dire la generazione che espande la demografia classica dei giocatori – il famoso ragazzino con gli occhiali spessi che passa le giornate davanti alla console – non solo ai giocatori casuali ma anche ad altri cluster demografici. Donne, persone anziane. Ed espande anche la tipologia di giochi: l’innovatività di Wii e Nintendo DS è tutta nella capacità di rendere più “naturale” l’approccio ai videogiochi e quindi di creare titoli che possano essere utilizzati anche da chi di per sé non giocherebbe. Grafica meno realistica che diventa più “cartoon”, pubblico che svaria dal ragazzino alla nonnetta. In pratica, un nuovo grande mercato che prima non esisteva e che Nintendo, perseguendo la strategia Blu Ocean, è riuscita a creare. Da sconfitto, l’underdog della letteratura, a nuovo vincente. à al cento per cento la strategia del professor W. Chan Kim e della sua assistente, Renée Mauborgne.
(seguono gli altri articoli della serie del mondo delle console per videogiochi)