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La salute di Steve Jobs e le speculazioni di Wall Street

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Era un lunedì mattina di quattro anni e pochi giorni fa: l’otto agosto del 2004 per la precisione. Il distributore di giornali stava a poche decine di metri dall’entrata dell’Embarcadero di San Francisco. Ancora non avevano rinnovato il terminal portuale com’è invece adesso ma, nonostante la stagione estiva inoltrata che in Italia svuota le grandi e le piccole città , la capitale della Silicon Valley era ancora in piena attività . Differenti tradizioni, le fabbriche non si svuotano per le ferie come è stato in Italia a partire dagli anni del boom economico fino a quelli della cassa integrazione. Ma tant’è.

Sull’Embarcadero street, la strada che costeggia la Baia guardando Oakland e porta verso il Pier 39 e Fisherman Warf, passavano turisti sui tram (alcune sono le repliche di quelli italiani di Milano) e impiegati in automobile. Da poco passata la rush hour del mattino, per intenderci, con traffico denso ma non abbastanza da schermare il rumore dei gabbiani. E il distributore del giornale aveva una edizione del San Francisco Chronicle scioccante: “Steve Jobs è stato operato di tumore”. L’uomo, 49 anni, capo della Apple dei miracoli che stava ingranando alla grande con l’iPod, Mac Os X e i nuovi portatili, aveva scritto proprio durante la domenica una email ai dipendenti dell’azienda per metterli di fronte al fatto compiuto: “Ho notizie personali che ho bisogno di condividere con voi e voglio che le sentiate direttamente da me”, scriveva Jobs.

Sul suo tumore, una rara forma di cancro al Pancreas operabile con risultati molto spesso positivi e che non richiede radioterapia o chemioterapia, è stato scritto e detto di tutto. E pure sul risultato che la prematura dipartita da Apple del suo boss, nella ipotesi mediana per gli effetti collaterali della malattia di una forzata pensione, si sono sprecati parole e inchiostro a profusione. Apple ha bisogno di Steve Jobs, il suo visionario leader e l’uomo capace di guidare le transizioni epocali del popolo della Mela (sistemi operativi, prodotti, processori, applicativi, strategie, modi di concepire la stessa informatica, sino all’internet in tasca dell’iPhone e i nuovi business dei media e dei contenuti con la musica, i telefilm e i film), si scriveva. Steve Jobs è il peggior nemico di Apple, hanno scritto, detto o pensato in molti, riflettendo sugli effetti di una sua prematura dipartita dall’ufficio che guida Infinite Loop. Però.

Perché c’è un però. Dopo quattro anni di Macworld e di WWDC (senza contare gli eventi speciali) in cui si è scrutata ogni ruga della faccia, ogni cambiamento del peso e dell’aspetto, ogni atteggiamento, ogni pausa, ogni sorso di acqua dall’immancabile bottiglietta che trangugia a canna durante i suoi keynote Steve Jobs, è cominciata ad emergere una consapevolezza.

Dopo i cremlinologi e i vaticanisti, abituati a scrutare figure solitarie di monarca non democratico che guida e sulla cui salute poco o niente si sa o si sapeva, i jobbiani o appolisti di professione che dir si voglia hanno avuto un sussulto. Perlomeno, la sera quando ci si trova a bere una birretta nei locali dove di solito bazzicano i ragazzi del Chronicle, di Cnet, di Wired, di Red Herring e delle altre testate che contano qualcosa, la voglia di continuare a parlare di “quell’argomento”, come lo chiamano, è passata.

Chi era a San Francisco quella mattina dell’otto di agosto di quattro anni fa, o che magari ha ricevuto una copia il pomeriggio prima verso le tre, da un amico che lavora alla Apple o da un conoscente ben inserito tra quelli che contano, non può non ricordare i primi istanti di choc, le riflessioni che sono venute alla mente, l’ansia di scrivere la notizia e di seguire il passo per testimoniare la cronaca nel suo divenire ai lettori: pancia a terra e battere sulla tastiera, come sempre, belle o brutte che siano le notizie. Però.

Adesso la consapevolezza che il gioco, diciamo da un annetto, è cambiato, è diventata bruciante. Non si può più far finta di niente. Diciamocelo e ripetiamocelo: nessuno si interessava alla salute di Steve Jobs per amicizia, affinità  personale o per semplice spirito del buon samaritano. Però adesso alla cronaca si sostituisce un’altra cosa: la voglia di sollevare polvere, stimolare il mercato, trarre probabilmente un utile.

I colleghi che si ritrovano la sera a bere una birretta nei locali dove di solito bazzica la ciurma dei giornali e delle riviste hi-tech della capitale della Silicon Valley, come ieri sera e come anche stasera probabilmente, non sono certo stinchi di santo che giurano su una Bibbia riformata patti e legati per l’onore di una bella ragazza o per rispetto alla privacy di chissà  chi. Dopotutto, è San Francisco la città  che ha visto muovere i suoi primi passi il giornalismo giallo d’assalto dell’Examiner di William Randolph Hearst, uno dei più illustri figli della città  della Baia. Però non sono neanche degli speculatori al soldo degli uomini col gessato e il Blackberry sempre in mano di New York e di Wall Street in particolare. Non si specula per i soldi, dice il codice d’onore dei cow boy di Frisco e dei pronipoti dei ragazzi del ’49. Se proprio si deve, si spinge il paese alla guerra (di Spagna o dell’Iraq che sia), ma non ci si piega agli affarucoli delle mezze calzette dei maghetti della finanza.

Ecco perché, diciamolo chiaramente, anche ieri sera mentre ci si beveva la birretta con i colleghi dei giornali e delle riviste hi-tech della capitale della Silicon Valley, il sentiment era uno solo: basta con le speculazioni sulla vita e sulla salute di Steve Jobs. Servono solo a cavalcare i rally in Borsa, non certo a informare il pubblico. Dateci notizie e noi, pancia a terra, batteremo sulla tastiera e le scriveremo come sempre, belle o brutte che siano. Ma basta con le speculazioni che oltretutto non sono neanche gratuite ma parecchio interessate.

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