Apple ce l’ha fatta. Anzi, visto che onori e oneri sono dei leader, Tim Cook ce l’ha fatta. Il manager della gestione, l’uomo capace di far funzionare la macchina, con un talento inizialmente limitato per la visione nel futuro della tecnologia e nella scelta dei collaboratori (ricordate l’oramai dimenticato direttore dei negozi Apple succeduto brevemente a Ron Johnson? No? Meglio), ha dimostrato che è bravo non solo con i conti economici e i volumi di prodotti ma anche nell’azzeccare i tempi di una trasformazione epocale.
Apple è un’azienda che sembra fatta da un popolo costantemente sul piede di partenza: una migrazione mitica, alla ricerca di un altro Egitto: dai vecchi processori 68K a quelli PowerPc, dagli Intel agli attuali Apple Silicon. Passando per sistemi operativi diversi, nuove tecnologie, cloud, nuove concezioni.
Se pensate che sia naturale, perché questo è il cammino che ha fatto il settore nel suo insieme negli ultimi quarant’anni, pensate meglio, perché la “fatica” non è di chi arriva nuovo e fresco. La vera fatica è di chi parte con una pesante eredità e deve reinventarsi in un mondo come quello della Silicon Valley che ha cambiato più volte le regole del gioco.
Una volta quelle brave erano le aziende nate in un garage come la stessa Apple, Hewlett Packard. Poi Google. Dopo Facebook. Oggi Uber. Domani chissà. E Apple, nonostante tutto e tutti, riesce a stare a galla e anzi, è diventata il pesce più grande dello stagno, per tradurre un modo di dire dall’americano.
Tim Cook ha promosso i manager giusti (e licenziato evidentemente quelli che andavano licenziati o comunque fatti andare via), ha messo insieme una strategia aderente al mercato e alla capacità di marketing dell’azienda. Ha pianificato una macchina di logistica e fornitura, cioè una catena del valore, grande come il pianeta. E ha individuato le tappe di una transizione che sta rispettando al centimetro.
Alcuni prodotti non arrivano mai (ricordate, AirPower?), altri ci mettono troppo (Mac Pro versione cestino nero) ma quando Apple prende la mira, affonda il bersaglio. La transizione di Apple è stata annunciata prima di poter essere fatta, ovviamente. È stata impostata ancora prima ma soprattutto è arrivata a maturazione nel peggiore dei momenti possibili, durante il lockdown provocato dal coronavirus. Eppure ce l’ha fatta. Transizione inappuntabile: rispettati i tempi e i modi. Con gli obiettivi prefissati.
Quel che è uscito fuori è non solo un prodotto tecnologico e una strategia di integrazione, ma anche una visione di trasformazione del modo con il quale si intende l’informatica personale che è un passo ulteriore rispetto alla visione di Steve Jobs degli apparecchi Post-PC. Questo è un paradigma di integrazione diverso che cambia la pelle dei personal perché introduce una architettura strutturalmente diversa da quella costruita da Intel e che non riusciva più a evolvere.
Intel e Amd si sono incartate nella miniaturizzazione di un prodotto che doveva invece passare a una fase di rifattorizzazione, ridesign, e integrazione, prima che di miniaturizzazione. Invece la paura di innovare sui propri prodotti, uccidendo il proprio vantaggio competitivo è quello che ha tenuto ferma soprattutto Intel. Risultato? L’innovazione è passata da un’altra parte. E non è stata Qualcomm a coglierla, bensì Apple.
I nuovi chip di Apple, gli M1, aprono una strada che è ancora in parte da avviare: la prima generazione di qualsiasi cosa è, per definizione, suscettibili di enormi miglioramenti. Ci vuole un anno di pazienza, secondo questo cronista, per vedere dei prodotti realmente “rotondi”. Però l’inizio è spettacolare.
I processori M1 sono sostanzialmente tutti uguali e vanno più o meno veloci a seconda del throttling imposto per ragioni di termica dal design di Apple. Il sistema operativo è integrato alla grande, l’emulazione funziona apparentemente molto bene. L’idea di partire dalla fascia bassa e medio bassa della line-up di Apple (il MacBook Air, il MacBook Pro 13 con due porte, cioè il meno potente, e il Mac mini), lasciando i prodotti di fascia medio alta e alta sempre in listino fa capire qual è la strategia di Apple. Dal punto di vista del risparmio abbiamo visto che si parla di 100 o 150 euro di differenza nel migliore dei casi, questa è l’altezza dell’asticella. E poi?
Apple deve aspettare almeno una generazione prima di poter sostituire i processori i7 e soprattutto gli i9 di Intel. Probabilmente due. Ecco perché Tim Cook a giugno, durante la WWDC 2020, diceva che ci sarebbero voluti due anni. Gli aggiornamenti del software procederanno in maniera ragionevolmente spedita ma si vedrà che tutto è a posto solo quando verrà eliminata Rosetta 2, il layer di emulazione dei processori Intel.
Tuttavia una nota va segnata. Questo approccio è innovativo anche per l’idea di rendere il processore una commodity. Apple non parla di velocità di clock, non parla di prestazioni per watt nel dettaglio, non dice niente se non offrire qualche misura “soggettiva” (due o tre o sei volte più veloce rispetto ad altri processori “medi” e indefiniti). Insomma, l’antitesi del benchmark. Perché?
Il premio per l’azienda è trasformare il computer, tutti i computer, in una commodity. Il che vuol dire posizionarli dal punto di vista solo del marketing basandosi sugli accessori per diverse funzioni (fattore di forma, memoria, altri orpelli). È il sogno di qualunque direttore marketing: poter fare di tutto con un unico prodotto, infinitamente estendibile e trasformabile, ma sempre uguale a se stesso. Un’unica referenza per produrre infinite categorie. Questo sarebbe il vero capolavoro di Tim Cook.