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La saga dell’iPhone [4]

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[Qui la prima parte della saga]
[qui la seconda parte della saga]
[qui la terza parte della saga]

A un certo punto, praticamente all’improvviso, ci siamo trovati tutti a imparare strane, nuove parole. Come “Revirginator”. Ora, si può vivere immersi nella tecnologia fino al collo, oppure passare le proprie serate a costruire modelli di galeone in scala uno a cinquecento. Persino stare distesi sull’amaca in soggiorno ad ascoltare il bel canto di inizio secolo su vecchi dischi di lacca. Ma bisogna ammettere che ci sono certe cose alle quali non ci si riesce proprio ad abituare.

Avevano appena lanciato l’iPhone. Che aveva fatto il “boom”. E nel giro di poche settimane, qualche mese al massimo, erano cominciate ad arrivare le novità . Di tre tipi. La prima erano stati i craccatori. Cioè quelli che erano riusciti a sbloccare il telefono. In maniera avventurosa e complessa all’inizio (addirittura ricorrendo a sistemi fisici, con protesi metalliche da sostituire a pezzi della propria carta Sim tagliata con forbici e certosina attenzione), poi sempre più facile. Tanto che era cominciato uno straordinario fenomeno di accaparramento di iPhone negli Usa, dove Apple li ha venduti senza alcun vincolo diretto nei suoi negozi perché l’attivazione era poi da farsi a casa con iTunes Store. Gente di tutto il mondo, soprattutto l’Italia, che tornava dagli Stati Uniti con due, tre quattro, alle volte anche una decina di iPhone infilati da tutte le parti. E non c’è mai stata sui giornali o nei blog di Internet notizia o racconto di clamorose intercettazioni alla frontiera, segnale di un lassismo non indifferente da parte dei doganieri di mezzo mondo.

Poi, la seconda novità , proprio quando ci si stava cominciando ad abituare alla prima: gli aggiornamenti del firmware dell’iPhone. O meglio, del mix di firmware e sistema operativo che lo animano. Un pandemonio, perché la craccatura del telefono implica l’uscita dalla “strada normale” e l’entrata in un percorso rischioso. Chi aggiornava, “brikkava” il telefono. Cioè lo riduceva tale e quale a un mattone, brick in inglese. Inutile, pesante e costoso. E l’aggiornamento del firmware della baseband del telefono da parte di Apple, cioè di quella parte che si occupa di gestire la connessione radio, era l’ostacolo principale. I primi telefoni, indicati nell’arco di settimane di produzione che il numero di serie stampigliato sul retro consentiva agli estimatori di individuare immediatamente meglio di un raffinato collezionsta di francobolli, erano diventati un bene raro e prezioso fino a che il problema non era stato superato. Le vendite intanto fiorivano, anche se parte consistente della produzione “scompariva” dal mercato americano per ripresentarsi da qualche altra parte del mondo via eBay, tramite amici compiacenti (o interessati), venduta addirittura da qualche intrapredente negoziante alla ricerca di guadagni facili con ricarichi del 300-400%. Alle volte, un vero scandalo.

Terza novità , iPhone sbarca in Europa. E qui, per i poveri italiani, comincia l’odissea. Anzi, l’agonia. Perché prima la Gran Bretagna, poi la Germania e la Francia (che sarebbero poi le nazioni che fanno i tre quinti del prodotto interno lordo euroepo) ci mettono mano con accordi in esclusiva con un singolo operatore di paese. Ma l’Italia no. Si cominciano a raccontare leggende. Come quella che un noto operatore nazionale ex monopolista abbia toppato le pratiche diplomatiche con Apple e per eccesso di faciloneria o di interesse commerciale sia stato messo da una parte. Chissà  se è vero. Però Vodafone, il grande operatore multinazionale, dapprincipio contattato da Apple, si tira subito fuori perché non crede all’offerta dell’azienda. Che è in effetti difficile da digerire nel mercato telefonico mobile: un mercato in cui sono gli operatori a dominare e a fare il bello e il cattivo tempo. Se uno dei vantaggi di Apple nel produrre il suo telefono è stato di pensare all’utente anziché al fornitore di servizio, il “merito” è anche dei fornitori di servizio che hanno trasformato in giganteschi eunuchi i produttori di telefoni cellulari. Anche i più giganteschi. Apple però rompe lo schema e dice, sostanzialmente: vale di più il telefono che l’operatore. Il quale, se vuole l’esclusiva, deve pagare non poco per averla. Anche una fetta di utili che riesce a fare una volta che l’utente comincia ad usare il telefonino.

Mentre il mercato telefonico cambia, e mentre impazza la pirateria per portare l’oggetto nelle mani dei consumatori senza blocchi o vincoli regionali, diventiamo tutti esperti di Jailbreaking (l’arte di “liberare” il telefono dalle costrizioni imposte e renderlo funzionante con tutti quanti) e Revirgination (l’arte di riportare un telefono liberato allo stato “vergine” iniziale, resettarlo, aggiornarlo e poi ri-craccarlo con una versione più avanzata del sistema operativo a bordo). E nasce la scena del software “homebrew”, fatto in casa, per l’iPhone. Di fronte al mezzo scandalo dell’apparecchio per il quale non è possibile sviluppare applicazioni se non come siti web raggiungibili da Safari, infatti, nasce un movimento di mezzi programmatori e mezzi script-kids che realizzano applicazioni e applicazioncine, grazie al fatto che il telefono alla fine utilizza una versione ridotta e con interfaccia modificata del ben noto sistema operativo di Apple, Mac Os X.

Così, il vero hacker, o perlomeno quello che ama vivere del frutto degli hacker, si dota di Installer e decine e decine di piccole applicazioni. Che in qualche misura riescono anche a destabilizzare, frizzare e talvolta briccare l’apparecchio. Contravvenendo proprio all’idea che aveva portato pubblicamente Steve Jobs a dire, durante la presentazione numero uno dell’iPhone: “Niente programmi di terze parti, perché appesantiscono il sistema e impallano il telefono. E la gente da un telefono vuole sostanzialmente una cosa: che funzioni”.

La battaglia assume quindi varie sfaccettature per Apple, che si rende conto che nonostante i quattro lanci in meno di sei mesi, forse non riuscirà  a raggiungere l’obiettivo dei dieci milioni di apparecchi. Allo studio c’è la versione Umts, o 3G, che permetta di sfruttare meglio la connessione telefonica anziché stare dentro quella solo WiFi. Ma c’è anche la versione 2.0 del sistema operativo, che si scopre avere una vera e propria passione per l’ambiente aziendale. E un’inedita formula per portare le applicazioni “garantite” sviluppate da terze parti verso l’iPhone, utilizzando l’iTunes Store anche di bordo. Il telefono di Apple sempre chiusissimo e sempre più centro di pagamento separato dall’operatore che se lo prende in carica. Il quale non è autorizzato a fare nessuna attività  di branding: niente possibile accesso al sistema operativo, niente icone personalizzate, niente logo sullo chassis del telefono stesso. Un disastro per questi miliardari che annegano il mercato, dopo averlo invaso, con spot pubblicitari tutti giocati sul ritornello della propria marca, ripetuto fino alla nausea insieme alla tettona di turno (o ai comici) e all’ultima offerta degna di un volantino della grande distribuzione organizzata (quali in effetti sono). Apple mette implicitamente in chiaro questo: il valore non è nel fornitore della connessione, che è solo una sorta di grande magazzino delle informazioni senza fili, ma del produttore dell’apparecchio che è anche in grado di fare il fornitore di servizi avanzati, come iTunes Store tascabile.

Si avvicinano i giorni e le ore che ci separano dalle novità  del prossimo annuncio di Apple. Perché nel frattempo noi italiani capiamo che qualcosa sta cambiando. Nel giro di pochi mesi Apple, dopo un avvio 2008 triste per chi si aspettava sotto l’albero o almeno nella calza della Befana nostrana l’iPhone, comincia a sparare fuori accordi con mezzo mondo. Entro la fine dell’anno, l’azienda passerà  da quattro paesi che distribuiscono il suo prodotto a 50, portando il potenziale parco clienti da 150 milioni a 600 milioni di persone. Un record. In cui l’esclusiva con il singolo venditore di linee senza fili evidentemente non è più la cosa determinante. Anzi, è a dir poco una palla al piede. Tanto che in Italia, nonostante le voci di corridoio che si inseguono persino sui giornali, arriva la notizia che invece della sola Telecom Italia sarà  anche Vodafone a commercializzare l’iPhone. Nessuno sa come o quando, perché i due fornitori di accesso danno solo uno scarno comunicato stampa e poi rivelano che sarà  Apple, cioè Steve Jobs, a dire le cose importanti da dire quando lo riterrà  opportuno. E un po’ di delusione viene fuori. Perché solo un fornitore avrebbe dovuto dare un prezzo buono per accattivarsi la concorrenza, mentre due si ha il sospetto che possano giocare contro il resto del mercato consumatori compresi tenendo i prezzi livellati in alto – come peraltro spesso le compagnie telefoniche sono a torto o a ragione accusate di fare – e infischiandosene degli ipotetici grandi volumi che potrebbero fare.

L’iPhone infatti si rivela, pur con numeri relativamente contenuti, un vero e proprio ammazzasette per quanto riguarda l’uso del telefono cellulare. I dati di una ricerca negli Usa indicano che chi ha l’iPhone naviga molto di più, si connette a vari servizi e non a uno solo, guarda moltissimo la posta elettronica, addirittura tende a sostituire con l’apparecchio il portatile. Musica per le orecchie di chi vorrebbe che la spesa media annuale degli utenti crescesse anche solo di una ventina di euro. Ma al tempo stesso orrore, pensado che la email attraverso una connessione internet flat sia il modo migliore per ammazzare il flusso di Sms, vera e propria miniera di diamanti dei fornitori di telefonia mobile. I dati sono impressionanti: costa meno spedire una foto digitale dal satellite-osservatorio Hubble in orbita perenne sulla terra che non l’equivalente in sms ai propri amici. La rivolta è nell’aria e Steve Jobs per le compagnie telefoniche acquista l’ambigua e temuta forma di un Robespierre che potrebbe mettere il loro fatturato nella ghigliottina.

A tra poco, per capire come finirà  la storia.

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