L’ultima puntata pubblicata (la sesta) è tra le più curiose e stimolanti, sia perché da una parte descrive un periodo difficile, e in quanto tale quasi incredibile per chi ha conosciuto solo gli anni del successo della Mela, sia perché presenta uno spaccato dell’attivismo nel segno dell’intraprendenza di un grande rivenditore Apple, corredando il tutto di volantini con promozioni, seminari, campagne di rottamazione. Un profluvio di iniziative, alcune delle quali decisamente originali, che rendono ragione dei due termini che non a caso abbiamo accostato: “Attivismo” ed “Intraprendenza”.
Chi conosce le campagne pubblicitarie tutte uguali (dalla California a Canicattì), tutte basate sugli stessi slogan, le stesse immagini e la stessa grafica che caratterizzano l’attuale mondo Apple potrebbe restare stupito dalla varietà di linguaggio, di colori e di approccio che un grande rivenditore di allora poteva permettersi per cercare in un tempo di aumentare il suo giro d’affari e per sostenere il business di Apple, ma le cose non sono così… stupefacenti se si considera come funzionavano le cose allora.
«Apple – ci dice Dario Conti Socio fondatore di Data Port – era una passione, una missione, un mondo a parte da promuovere, un sistema creativo anche sul piano della pubblicità. La vedevamo così e queste campagne dimostrano questo sentimento che si era formato anche per l’approccio tutto particolare che la stessa Apple aveva nei confronti di noi rivenditori.
Se guardo indietro e poi guardo all’oggi metto a confronto due universi del tutto irriconoscibili. Nel primo, quello degli anni ’90, vediamo una società che si rende conto che senza i rivenditori che erano diffusi capillarmente sul territorio, ciascuno con la sua identità, non avrebbe avuto speranze prima di affermarsi e poi di sopravvivere; vedo anche noi che, consapevoli di quel che significava sostenere quell’azienda, ci davamo da fare per “inventarcene una ogni giorno”.
Certo c’era qualche sfumatura un po’ naif, ma anche un rapporto simbiotico e partecipativo che a mio giudizio ha consentito ad Apple di tenersi in vita e diventare quella che è oggi, una società che innova. Poi guardo a quel che succede oggi e vedo una cosa molto diversa. Vedo una realtà che sta avendo un enorme successo, che è venerata e riverita come mai nella sua storia, ma vedo anche freddezza e distacco da quei rivenditori che allora le avevano consentito di sopravvivere, vedo un sistema rigido che non lascia spazio alla creatività e all’intraprendenza e che soprattutto non premia competenza, produttività e passione».
Secondo Conti Apple sembra che non abbia più bisogno di specialisti, di “missionari”, di persone che si lanciano in avventure anche un po’ incoscienti. «Ovviamente mi rendo conto che stiamo parlando di affari e di mercato – dice l’amministratore di Data Port – e non mi illudo di sostituire il business con il sentimento, ma è proprio considerando che stiamo parlando di una realtà che vuole fare business che mi arrabbio. Apple oggi sembra che abbia bisogno solo di qualche vetrina
. Da un certo punto di vista è comprensibile; in fondo molti prodotti si vendono da soli, non hanno bisogno di promotori, di passione né di pubblicità. In fondo che cosa aggiunge un venditore a quel che si sa di iPad, iPhone o iPod touch? E visto che da questo mercato Apple ricava più del 70% del suo fatturato, ben venga la vetrina in centro città. Ma c’è un mondo che ancora vive sui computer che, specie qui in Italia, rappresenta un mercato enorme tutto da conquistare.
Su questo universo lottiamo da soli e più ci penso più mi arrabbio: il grande successo che arriva da iPhone e iPad sta spingendo banche, grandi realtà istituzionali, mondo universitario, aziende, imprenditori, professionisti a porsi la domanda se anche i computers di Apple, e non solo i dispositivi da tasca, hanno un significato nel loro ciclo di produzione, di ricerca e studio; ma manca la formazione, mancano le offerte, mancano gli specialisti e manca anche un piano commerciale che aiuti noi rivenditori a dare risposte».
Che cosa può, fare, quindi, Apple per aiutare i rivenditori, specie quelli storici, per rinverdire un amore che, lo si coglie dalle parole e dalla passione di quelli come Dario Conti, non è mai morto? «Quel che può fare Apple – ci dice sempre l’amministratore di Data Port – lo saprei: dare almeno pari dignità della catena dei negozi (Apple Premium Reseller) agli altri Canali storici (Education e Solution Expert).
Tuttavia ci sono in campo troppe variabili e anche strategie che non possiamo comprendere nella loro interezza e non mi sento di dettare ricette ad Apple. So quel che potremmo fare se non fossimo lasciati da soli a combattere una battaglia su un terreno dove i concorrenti sono ancora molto agguerriti e dove con un pizzico di aiuto, grazie alla nostra competenza e alla nostra esperienza, noi rivenditori storici, potremmo cambiare le carte in tavola. Se mi devo augurare qualche cosa è di non essere lasciati soli, di non essere costretti a trasformarci in una specie di condotta idrica che porta acqua dalla fonte alla foce.
Abbiamo una storia e anche un’anima, crediamo di conoscere non solo il mercato di Apple ma anche la gente che viene da noi e chiede soluzioni e risposte e non solo di portarsi via una scatola. Sappiamo che possiamo fare ancora molto, probabilmente molto di più di quello che abbiamo già fatto in quegli anni difficili, per far crescere Apple in Italia. Ne siamo tanto convinti che andiamo quasi disarmati in battaglia lo abbiamo fatto negli anni ’90 e lo faremo ancora. Mi piacerebbe però, come negli anni ’90, sentire alle mie spalle la passione e l’alito di quel qualcuno per cui combatto e non essere costretto a vederlo raffigurato su uno schermo mentre punta solo il dito nella direzione dove devo andare»