Marzo 2006. Tre amici lavorano da otto giorni a un progetto. Si sono messi a programmare un sistema di messaggistica che è una specie di blog minimale. Per Jack Dorsey, Evan Williams e Biz Stone, con poco si più fare parecchio. Si tratta di Twitter, che all’inizio doveva chiamarsi “twttr”, dalla sequenza di tasti del cellulare da usare per indirizzare il messaggio (98997 sulle tastiere numeriche) che poi aveva una lunghezza inferiore a quella di un SMS: “solo” 140 caratteri anziché 160.
Twitter è così: tutto di corsa. Non passa giorno che non cambi qualcosa. Piccole cose, molto veloci. Un susseguirsi rapido di avvenimenti. Come il valore di Twitter: da fatturare niente, adesso vale qualche miliardo di dollari e continua a non fatturare quasi niente. Come i suoi utenti: ad aprile di un anno fa erano poco più di cento milioni, adesso sono più di duecento milioni. Per chi lo ha scoperto negli anni della giovinezza, cioè 2007-2008, Twitter era sostanzialmente un divertente sistema per mandare messaggi molto rapidi, praticamente lo stato di Facebook senza tutto il resto. Ed era anche un sistema sempre con le gambe all’aria. Anzi, una balena all’aria, se si pensa all’icona caratteristica della balenottera che vola a occhi chiusi, sostenuta da uno stormo di cinguettanti uccellini di Twitter.
C’è una letteratura emergente sul senso di Twitter, sul modo in cui si può usare Twitter e sul perché Twitter ha avuto successo. Un dato assoluto è quello dei conflitti e dei disastri in cui Twitter è fondamentale. Come una sorta di sciame di pigolii che amplificano i trend principali, Twitter fa esplodere nella rete gli eventi più tosti della storia: le rivolte in Kenya durante le presidenziali del 2007 con i candidati di opposizione, le manifestazioni in Iran, l’incredibile successione di ribellioni nel Nord dell’Africa degli ultimi mesi. Ma anche bombe, emergenze, terremoti, tsunami (come l’ultima, drammatica serie di eventi del Giappone).
Twitter si candida ad essere pratico fin da subito perché richiede poche righe per legare una informazione, un link a una foto o a un video (per Twitter hanno finalmente successo anche i siti che accorciano i link lunghi in “short links”), e mette tutto in circolazione alla velocità della luce, anche quando la banda è pochissima o scarseggia. Cadono le reti telefoniche, non ce la fanno ad andare i siti web, vanno giù i blog, ma se c’è una bava di internet i pigolii di Twitter passano, magari meglio delle stesse email, di sicuro visibili da tutti.
Twitter poi è la prima funzionalità/protocollo di comunicazione che viene usata più in mobilità che non da computer fissi: nasce come canale azionabile anche via SMS, ma adesso sono le apps soprattutto a farla da padrone. Tanto che la stessa Twitter, che nel frattempo è stata lasciata dai suoi fondatori nelle mani di Dick Costolo, ex manager Google, ha dichiarato che adesso riprenderà il controllo del mercato dei client. Questo vuol dire: Twitter non è solo un protocollo ma anche un insieme di funzionalità, per questo l’azienda non vuole perdere il controllo e lasciare che applicazioni come TwittDeck stabiliscano nuove modalità di interazione al di là della loro volontà.
In futuro cosa succederà? Twitter ha fatto un po’ di soldi vendendo ai motori di ricerca (Google e Bing) l’accesso privilegiato ai loro tweets per far sì che compaiano in testa ai risultati di ricerca. Un colpo per la cassa. Ma poi cosa succederà? Questo rimane, dopo cinque anni, il grande mistero che pesa sul futuro di Twitter.