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Jobs «cospiratore» nel presunto cartello per bloccare i salari

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Non è ancora finita la vicenda giudiziaria relativa al cartello per bloccare i salari che alcune aziende della Silicon Valley avrebbero costituito al fine di non farsi concorrenza. Lucy Koh, giudice distrettuale per il nord della California, ha bocciato lo scorso venerdì il tentativo di patteggiamento tentato dalle aziende coinvolte – Apple, Google, Intel e Adobe – per chiudere la class action intentata da 64mila dipendenti su un valore di 324,5 milioni di dollari, giudicato troppo esiguo. Particolarmente dure sono le parole che la Koh usa per Steve Jobs, considerato il perno di questi patti. Secondo quanto riporta il New York Time – il primo a dare la notizia nella nottata di venerdì ora italiana (non nuovo ad attacchi a Jobs sulla vicenda) – per la Koh «ci sono convincenti prove che Steve Jobs fosse una delle figure o la figura centrale nella presunta cospirazione».

La vicenda del presunto cartello per bloccare i salari nella Silicon Valley inizia nel 2011, quando un gruppo di dipendenti dei big dell’informatica americana fanno causa alle aziende, accusandole di aver costruito un sistema che non facesse lievitare i salari. A questi se ne sono poi aggiunti altre migliaia. Secondo la Koh – prima donna asiatica a ricoprire questo ruolo, conosciuta per la sua inflessibilità e che si è occupata anche di altri processi nella Silicon Valley, come quelli della guerra di brevetti tra Apple e Samsung -, questo patto poggia le sue basi indietro negli anni, con un’intesa tra Jobs e George Lucas, della Lucasfilm. In pratica si trattava di non farsi la guerra a suon di stipendi migliori per sottrarsi i lavratori capaci di portare idee nuove ad aziende che dell’innovazione fanno il loro motivo di successo sul mercato. Questo modello sarebbe poi stato replicato in altri casi. Altre figure chiave sono l’ex Ceo di Google Erich Schmidt, oltre che Bill Campbell, ex di Apple e Ceo di Intuit. Ma secondo la Koh un ruolo preminente lo avrebbe giocato Jobs e la «paura e deferenza» che sapeva incutere in persone che pure gestivano multinazionali che fatturavano miliardi di dollari l’anno. In particolare, su pressioni dell’x Ceo di Apple Google avrebbe rinunciato ad assumere tre ingegneri, figure chiavi per un futuro centro di ricerca in Europa, poi mai aperto. L’arma usata era la minaccia di cause miliardarie sui brevetti. Per confortare la sua tesi, Koh si riferisce a decine di mail intercorse tra i soggetti interessati, in parte rese pubbliche già la scorsa primavera. Un quadro dal quale non tutti ne escono male. Ad esempio Palm, il cui Ceo Ed Colligan aveva deciso di non dare ascolto a Jobs . che pure faceva riferimento minacciosamente nelle sue mail all’«asimmetria fra le risorse delle due società» – e Facebook, che proprio in quegli anni era in netta crescita e aveva bisogno di buoni ingegneri e informatici come l’aria.

Con la bocciatura del patteggiamento adesso le strade sono due: o si riuscirà a trovare un nuovo accordo, o si andrà a processo con un ulteriore danno di immagine per le società coinvolte, e con il rischio che – a fronte di una richiesta iniziale di 3 miliardi di dollari – si arrivi a dover pagare ai querelanti anche 9 miliardi. Intanto per altre tre aziende la vicenda si è già chiusa: Pixar, Intuit e Lucasfilm hanno patteggiato nei mesi scorsi.

L’unica a commentare, per ora è Intel «Siamo delusi dal fatto che il tribunale abbia respinto l’approvazione di un accordo che è stato negoziato a condizioni di mercato nel corso di molti mesi», ha detto il colosso dei chip. La bocciatura del patteggiamento, in effetti è una cosa poco usuale. «Non riesco a ricordare un giudice che in merito a una class action decide che la cifra dell’accordo è troppo bassa e che è necessario andare al processo. E’ sorprendente» ha detto al NYT Daniel Crane, docente di diritto dell’antitrust presso la University of Michigan.
Cartello per bloccari i salari

 

 

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