La rete è choccata. Tutti aspettavano di capire cosa sarebbe successo nel processo del secolo, quello contro Piratebay.org, il sito da cui si possono cercare file di Bit-Torrent e che venne proditoriamente oscurato anche in Italia (gli Isp nostrani fecero seguito a una ordinanza del tribunale di Bergamo poi smentita dai fatti e dimostratasi illegittima). Il processo del secolo perché da lunedì scorso sono davanti ai giudici gli attivisti che da più tempo e con più clamore si battono per la parte più indifendibile e al tempo stesso più da rispettare della rete: quella che dice che i protocolli non possono essere arbitrariamente censurati perché non piace come vengono usati dagli utenti. E poi lo choc: le accuse sono almeno per metà “farlocche”: il pubblico ministero non sapeva neanche di che parlava, dopo tre anni di indagini e ricerche.
La storia la conoscete: Piratebay, che in svezia è anche un “partito-pirata”, è nell’occhio del ciclone. Fa da motore di ricerca per i file .torrent, quelli che servono per avviare la connessione (insieme ai tracker, di cui Piratebay è host) e scaricare tra utenti file di genere diverso. Dalla beneamata distribuzione di Linux fino all’ultimo film, telefilm, disco o software piratato. Ma non da quelli di Piratebay.
Negli anni, le case discografiche e cinematografiche (per non contare i vampiri dell’associazione dei software) hanno cercato di bloccare il sito con lettere minatorie e proditorie. Senza successo: Piratebay ha sempre ribadito che per la legislazione del loro Paese niente di quello che queste aziende dicevano è rilevante. Fino a che non è arrivati al processo vero e proprio, organizzato con calma dalla magistratura locale e costruito attorno alla tesi che Piratebay sia un sito pericoloso, i suoi “pirati” ancor più pericolosi e che tutti rischino fino a due anni di galera dura e 100 mila euro di multa. Mica noccioline.
Parte il processo, lunedì scorso, uno dei momenti più importanti della storia della rete perché potrebbe scoraggiare oppure ringalluzzire le forze che mirano ad assoggettare l’anarchico flusso di dati a un ordine economico e legale prima che tecnologico, quando arriva la prima sorpresa. Metà delle accuse crollano.
Come mai? Il punto è semplice. Quel genio del pubblico ministero, nonostante i tre anni necessari alle indagini e alla preparazione dell’accusa, non ha in realtà capito come funziona .torret e, forte di strumenti accusatori risalenti all’epoca di Napster, ha capito solo davanti alla controparte che rischiava di far saltare tutto se non ritirava la maggior parte della accuse.
Quello che adesso è il cuore del processo, o meglio la parte che ne rimane, è un’accusa diversa e ancora più interessante. Niente violazione del copyright da parte di Piratebay, invece si parla di comportamento che rende potenzialmente disponibili a terzi materiali protetti da copyright. Si passa cioè dal campo di una azione (distribuzione di materiale in violazione delle norme sul copyright) a una intenzione sottoposta a condizione di possibilità (rende disponibili potenzialmente agli scaricatori i file da cui partire per scaricare i file veri e propri soggetti a copyright).
à questa una strada già seguita senza fortuna dalla Riaa, l’associazione dei discografici americani, quando fece causa a Jammie Thomas, che era accusata di condividere file musicali in rete e che portò all’annullamento del processo (si era concluso con una multa di più di 200mila dollari per la giovane) perché la rappresentazione del “rendere potenzialmente disponibile” fatta alla giuria era impropria e fuorviante.
Il processo svedese andrà ancora avanti, e Stoccolma sarà sempre più al centro dei pensieri di molti che riflettono su come, al giorno d’oggi, l’economia dei bit e quella degli atomi stiano collidendo con l’immagine di un pirata che alternativamente trascina a fondo le major di tutto il pianeta o che viene gettato in pasto ai pesci dagli agenti dell’ordine costituito.