La Cina è il paese del bengodi. Perlomeno, a differenza del dibattito che a lungo ha infuocato il nostro paese, molte grandi aziende multinazionali vedono in Cina fondamentalmente due cose positive. Da un lato, il posto dove portare la produzione dei propri apparecchi e prodotti: tecnologia, abbigliamento, mobili, semilavorati, la lista è lunghissima e certamente incompleta visto che quasi ogni giorni si aggiungono nuove linee nei parchi industriali che sorgono oramai sempre più numerosi nel paese e portano con sé sgravi fiscali e bassi costi di manodopera per le imprese. L’altro lato, più interessante per le aziende in una prospettiva di medio periodo, è un nuovo mercato “vergine” o quasi in cui espandersi.
Probabilmente durante tutto l’arco della vita di chi sta leggendo questo articolo assisteremo al fenomeno di espansione dei mercati nei paesi in via di sviluppo mano a mano che raggiungono la massa economica critica necessaria a supportare la spesa per beni che invece nei paesi del primo mondo sono diventate commodity che hanno saturato il mercato. Nell’immediato, oltre all’India, anche la Cina – popolazione sterminata, enormi contrasti sociali ma una classe di nuovi quasi-benestanti che sta emergendo nella scala dei milioni di persone – è un obiettivo primario. Obiettivo ad esempio, e qui restringiamo la mira, per il settore hi-tech.
Tuttavia, l’informatica nel suo insieme e le tecnologie ibride come ad esempio gli smart phone (metà computer e metà apparecchio di comunicazione, o anche metà prodotto e metà servizio, per vederla da un altro angolo visuale) non stanno entrando con i tassi di crescita che ci si potrebbero immaginare. A guastare i calcoli delle grandi aziende ci si stanno mettendo un po’ di fattori tra i quali spicca, sostanzialmente la difesa autarchica dei mercati da parte dei governi locali. Pechino, che non è totalmente fuori dal mondo, ha capito da tempo che alcune tecnologie chiave devono essere portate avanti con una produzione autoctona. Altrimenti, la colonizzazione terminata in maniera drammatica a cavallo tra le due guerre mondiali rischia di riprodursi dal punto di vista industriale.
Quello della telefonia mobile è per i cinesi un settore critico, quasi quanto quello delle tecnologie di base per i personal computer. Non ci vuole un premio Nobel alla guida del partito comunista cinese o del governo per capire che chi comincia a vincere in quei settori si porta a casa una fetta di mercato impressionante, che vale da sola uno spicchio consistente del resto del mondo. Per quanto riguarda i personal computer, lo sforzo dei cinesi è basato su una strategia multilivello: produrre in casa nuovo computer, comprare brand e tecnologie straniere (Lenovo con la divisione Pc di Ibm), cercare di mitigare il fattore di espansione dei prodotti stranieri. Ci stanno riuscendo perfettamente.
Con i telefoni cellulari, cosa succede? Di solito, si fa riferimento all’idea che nel mercato cinese e a Cina Mobile (della quale si è appreso il disinteresse per adesso a un accordo con Apple) ci siano 380 milioni di abbonati con 6/7 milioni di nuovi contratti al mese. Cifre che metterebbero l’acquolina in bocca a chiunque. Ma quali telefoni in realtà utilizzano i cinesi sulle loro reti mobili? Siamo tentati di pensare che anche in quel mercato “viaggino” Nokia, Sony-Ericsson, Samsung, Lg e tutti gli altri brand che circolano nel resto del mondo. Certamente è così, ma non con questa proporzione.
La Cina, infatti, sta giocando con abilità la carta della protezione del mercato nazionale sulla base degli stessi principi che hanno consentito al Giappone di costruirsi una rete e un mercato interno blindato, difeso e potente. La lingua è una delle barriere, che soprattutto nel settore della telefonia fanno la loro parte. Motorola ha cercato a lungo di cannibalizzare il mercato cinese (ricordate lo smart phone A100? Era stato lanciato prima in Cina che non nel resto del mondo) e non è andato affatto bene. Anzi, ha perso la chance di conquistare – nonostante le capacità linguistiche in cinese del palmare-telefono – il mercato.
Il punto è che in Cina esistono decine di brand che producono telefoni cellulari. E molti di questi copiano, ovviamente, o utilizzano tecnologie di base studiate da altri. Altri ancora innovano, producendo un mercato locale fatto di varie tipologie di apparecchi, smart e non smart. La penetrazione di vari marchi – tra i quali spiccano i coreani Lg e Samsung e Nokia – c’è, ma non è radicale come ci si potrebbe aspettare. Sono i cinesi che, come prima di loro i giapponesi, producono tecnologia e cercano anche di dargli una forma che vada bene per il mercato interno e non permetta a troppi prodotti stranieri di prendere il controllo.
Un esempio lampante di questa politica è per quello che riguarda proprio China Mobile e le tecnologie 3GH: la Cina doveva lanciarle nel 2005 utilizzando una tecnologia proprietaria (TD-SCDMA) sviluppata con Siemens e che non è compatibile con quelle 3G utilizzate nel resto del mondo. Lo scopo era difendere il mercato interno, ovviamente, ma anche non pagare le royalties che legano gli standard 3G a grandi aziende occidentali. Il TD-SCDMA non è arrivato in tempo – ci sarà ma solo in piccola parte durante le Olimpiadi questa estate, senza che praticamente nessuno con telefoni occidentali possa usarlo, dovendo appoggiarsi quindi al normale Gsm – e la Cina ha probabilmente imparato la lezione. Ma, lo si noti tra parentesi, questo è anche un oggettivo motivo di distacco dalla strategia di Apple che mira a far evolvere l’iPhone verso lo standard 3G attualmente usato in Europa, Usa e in piccola parte anche in Giappone.
Tornando al mercato cinese in generale e alle sue strategie, in futuro probabilmente si ripeterà anche quello che è successo nel settore dei Pc: una qualche grande azienda dei grandi coumpound industriali locali acquisterà un marchio straniero e comincerà una produzione low cost o di prezzo medio per i mercati occidentali e del resto del mondo. Per adesso, la strada dell’iPhone è complessa, non rispecchia le logiche di mercato che Pechino e le industrie cinesi cercano di imporre con successo e non lega neanche con i modelli di contratto che i cinesi vogliono che si stringano con gli abbonati. Dietro alla mancata negoziazione con China Mobile non c’è solo la volontà di Apple e di un carrier telefonico, ma una strategia industriale e politica che si lega a un gioco molto più ampio. Anche se, col tempo, destinata ad evolvere.