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I nativi digitali e il ritorno al futuro dei Boomer

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In uno scarto improvviso, un colpo di scena degno di un episodio di quelli buoni di “Black Mirror”, i nativi digitali stanno riscoprendo il fascino dell’analogico con la stessa foga con cui i loro genitori scaricavano suonerie polifoniche. Èl paradosso dei nativi digitali che riscoprono il vinile.

Ragazzi cresciuti a pane e TikTok fanno la fila per accaparrarsi l’ultimo vinile limited edition (anche l’acquisto online è vietato: il drop è rigorosamente fisico), maneggiando con reverenza quegli strani dischi neri come se fossero antichi manufatti. Ci avreste mai creduto se vi avessero detto che il futuro avrebbe avuto il suono gracchiante di un giradischi? Noi che abbiamo una certa età e abbiamo salutato il Cd prima, il Minidisc poi e l’mp3 infine come il Santo Graal certamente no.

La nostalgia sembra aver colpito una generazione che paradossalmente non ha vissuto l’epoca che rimpiange. È come se i millennial avessero improvvisamente deciso di collezionare dagherrotipi o di comunicare via piccione viaggiatore. Ma ehi, se questo significa che finalmente qualcuno ascolterà un album intero senza skippare ogni tre secondi, ben venga questa improbabile rivoluzione vintage. Ci sta, come dicono oggi.

Quando i figli chiedono ai genitori come si usa un fax

“Mamma, cos’è questa scatola rumorosa che sputa fogli?”. Non ci crederete, ma è una domanda che è stata fatta veramente. La domanda soprattutto è: da dove vengono i fogli? Non è una stampante. Allora cos’è?

Benvenuti nell’era in cui i genitori si trovano a spiegare ai propri figli cosa sia un fax, con la stessa pazienza con cui un archeologo illustrerebbe il funzionamento di un antico meccanismo a manovella. È il momento in cui alcuni di noi di una certa età realizzano che la tecnologia della loro gioventù è ormai materiale da museo. Anzi, che è già nei musei: se andate a vedere quello di Scienza e Tecnologia di Milano, ad esempio, dentro trovate l’infanzia e anche l’adolescenza dei cinquantenni di oggi. Forse è il caso di smettere di conservare quella collezione di floppy disk “perché non si sa mai”.

Mentre i più giovani guardano perplessi queste reliquie tecnologiche, i genitori si lanciano in nostalgiche dissertazioni da vecchi tromboni su come “ai loro tempi” si dovesse aspettare ore per scaricare una canzone, solo per scoprire che era la versione sbagliata. È il cerchio della vita tecnologica che si chiude, con i figli che ora insegnano ai genitori come usare lo smartphone, in un ironico rovesciamento di ruoli che fa sembrare “Ritorno al Futuro” un documentario fin troppo realistico.

Ritorno al Futuro analogico
Immagine creata con Microsoft Designer

Flip phone: perché essere “disconnessi” diventa cool

Il ritorno dei telefoni a conchiglia è la prova che la moda, come la storia, si ripete, ma questa volta sotto forma di farsa tecnologica. I giovani cool ora sfoggiano con orgoglio dispositivi che sembrano usciti dal guardaroba di Zack Morris in “Bayside School”, come se possedere un telefono incapace di installare TikTok fosse il nuovo status symbol.

Essere “disconnessi” è diventato il nuovo “connessi”, in un paradosso che farebbe girare la testa a Schrödinger. I millennial si ritrovano a spiegare ai propri figli che no, non possono scaricare Fortnite sul loro nuovo (vecchio) Nokia 3310, ma in compenso possono giocare a Snake per ore senza preoccuparsi della batteria. Che tra le altre cose dura una settimana. È la rivincita dei boomer, che finalmente possono dire “te l’avevo detto” mentre i loro figli cercano disperatamente di mandare un SMS con il T9 (auguri).

Vinyl is the new black

L’hipster e il suo giradischi è un nuovo stato mentale comune a molti. Gli hipster infatti hanno elevato il vinile a totem della coolness, trasformando le vecchie collezioni di dischi dei genitori (spesso sfasciate e comunque di dubbia qualità musicale) in veri e propri tesori. Improvvisamente, infatti, quel polveroso giradischi in soffitta è diventato più desiderabile di un iPhone 16 Pro Max di ultimissima generazione. È come se una intera generazione avesse scoperto che la definizione di “alta fedeltà” non è relativa al bitrate ma in giri al minuto.

Caffetterie alla moda ora offrono “esperienze d’ascolto vintage”, dove si può sorseggiare il latte di soia con un cincino di cinnamomo e il duomo della tua città “stampato” con il cacao equo e solidale ascoltando un vinile gracchiante di Miles Davis, pagando il triplo per il privilegio di sentirne ogni più piccola imperfezione. È la rivincita del rumore di fondo, celebrato come se fosse una caratteristica premium invece di un difetto tecnico. Dopotutto “è caldo”, no? Impossibile prevedere che il futuro dell’audio sarebbe stato così rumoroso: per fortuna i grandi ingegneri del Fraunhofer Institute sono tutti in pensione o già morti.

Dall’iPhone 14 al Nokia 3310 È la moda del “vintage tech”, baby. In un colpo di scena che nemmeno Steve Jobs avrebbe potuto prevedere, possedere un telefono “stupido” è diventato più cool che avere l’ultimo smartphone. I giovani trendsetter ora sfoggiano con orgoglio telefoni vintage indistruttibili come fossero i Rolex del nonno, mentre i loro iPhone giacciono dimenticati in un cassetto, come vecchi giocattoli fuori moda. E forse, alla fine, solo questo sono: giocattoli. Dopotutto, come diceva Oscar Wilde, “niente è più necessario del superfluo”.

Questa corsa al passato tecnologico ha creato un mercato parallelo dove un Motorola StarTAC può valere più di un MacBook Pro. Soprattutto se è NOS: parolina magica adorata dalle tribù hipster che significa New Old Stock: un modo elegante per dire fondo di magazzino che però si traduce in qualcosa di vecchio che è anche completamente nuovo e si può ancora scartare o spacchettare per fare “l’esperienza”. È il concetto di “vergine illibato a sessant’anni”. Il sogno di una generazione gerontofila.

È come se il mondo tech avesse deciso di fare marcia indietro, celebrando con nostalgia un’epoca in cui la batteria durava settimane e l’unica app era il giochino Snake e lo spazio per gli sms era misurato: bisognava decidere quali tenere e quali buttare.

La rivincita della carta

È possibile leggere un libro senza le notifiche push attive? Su reader certamente, ma anche là la connessione sta diventando sempre più pervasiva. E l’illuminazione. E l’esperienza delle altre app oltre al colore. Insomma, l’ebook reader “puro” ha i giorni contati”.

In un’epoca in cui anche il frigorifero ti manda notifiche, l’orologio vibra per dirti che ti cercano e l’anello si stringe per attirare la tu attenzione, leggere un libro cartaceo è diventato un atto di ribellione zen. L’equivalente digitale dei monaci buddisti che si davano fuoco in Vietnam durante la guerra con gli americani. I millennial scoprono con stupore che voltare fisicamente le pagine non richiede di aggiornare il sistema operativo e che l’unico “refresh” necessario è quello della mente. È come se avessero scoperto una forma di meditazione che non richiede un’app per funzionare o le cuffie a cancellazione del suono.

Le librerie, che sembravano destinate all’estinzione come i videonoleggi, vivono una seconda giovinezza. I giovani le frequentano come dei giovani assistenti di Indiana Jones: le osservano incantati come se fossero templi di una saggezza antica e misteriosa, annusando le pagine dei libri con la stessa reverenza con cui i loro genitori odoravano i vinili nuovi. Chi l’avrebbe mai detto che il profumo della carta stampata sarebbe diventato più inebriante di quello del packaging del nuovo smartphone?

L’ironia della condivisione

Ovviamente tutto questo è molto paradossale. Cercando di raccontare questa storia surreale del vecchio che avanza, si incontrano le contraddizioni tipiche della nostra epoca. Un esempio? la moda di postare su Instagram la propria “vita analogica”. Strano, vero?

In uno scarto improvviso e involontariamente umoristico che farebbe sorridere anche il più cinico dei filosofi stoici (quelli veri, non quelli nei reel o su TikTok), i social media sono diventati il palcoscenico privilegiato per ostentare la propria “vita analogica”. Ragazzi che postano su Instagram foto dei loro diari scritti a mano, come se fossero reperti archeologici di un’era pre-digitale. È il paradosso dell’era moderna: essere analogici è cool, ma solo se tutti lo sanno grazie ai social che sono ovviamente digitali.

È un vero e proprio ossimoro digitale: concetti (e hashtag) come “Digital Detox” e “Offline Is The New Luxury” spopolano online, creando una sorta di realtà parallela dove essere disconnessi è la nuova forma di connessione. È come se il mondo virtuale fosse diventato il megafono per gridare quanto sia bello il mondo reale, in un loop di autoironia probabilmente pensato da qualche grande commediografo del passato: “Un vinile chiamato desiderio”, per intenderci.

L’ansia da prestazione social

La cosa fa sorridere ma al tempo stesso è molto seria. La fatica di essere sempre “on” esiste e si paga pegno. Un pegno molto salato. Essere sempre connessi sta diventando difficile per la mente: è come fare yoga su una tavola da surf. Un sacco di gente non ci sta più dentro. Soprattutto quelli giovani.

La generazione Z infatti si ritrova a fronteggiare un’ansia da prestazione social che farebbe sembrare gli esami di maturità di una volta una passeggiata nel parco. Ogni post, ogni storia, ogni tweet diventa un potenziale campo minato di like, commenti e giudizi, trasformando la vita online in un perpetuo reality show senza pause pubblicitarie.

Il risultato? Una generazione che oscilla tra il bisogno compulsivo di condividere ogni aspetto della propria vita e il desiderio disperato di sparire nel nulla digitale. È come se fossimo tutti intrappolati in un loop di quelli che una volta si vedevano negli episodi più visionari di Star Trek: se le potessimo registrare, probabilmente troveremmo emissioni tachioniche che ci farebbero capire che siamo entrati in un paradosso spazio-temporale. Un Hotel California dove un’intera generazione è entrata ma che, come cantavano gli Eagles, non ha una porta di uscita..

Un nuovo equilibrio è possibile?

Ci sono delle vie di uscita possibili e praticabili? Ad esempio, si può imparare dai “boomer” senza rinunciare al progresso? Può essere quella una soluzione? Forse sì, perché i millennial si ritrovano a guardare sempre più spesso ai loro genitori boomer come a dei guru della disconnessione. Chi l’avrebbe mai detto che quelle stesse persone che lottavano con il videoregistratore (il famoso 00:00 che lampeggiava malefico per anni in salotto, sotto lo schermo del televisore) avrebbero avuto la chiave per una vita più equilibrata? È come se il meme “Ok Boomer” si fosse trasformato in un disperato “Help me, Boomer”.

La sfida è quella di salvare il soldato Ryan millennial da un lato ma di non buttare via il bambino digitale con l’acqua sporca. Bisogna, come dicevano i saggi filosofi dell’antichità, trovare il giusto mezzo. Trovare cioè un equilibrio tra il fascino retrò dell’analogico e i vantaggi innegabili del digitale. Forse il futuro non è né completamente online né totalmente offline, ma una sorta di ibrido analogico-digitale, dove si può godere di un vinile mentre si controlla il meteo sullo smartwatch.

È il momento di imparare l’arte boomer del “vivere nel presente” senza rinunciare a postarlo su Instagram, con moderazione e consapevolezza. Dopotutto, se un albero cade nella foresta e nessuno lo condivide sui social, è davvero caduto?

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