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Nessuno sa da dove passa la terza via necessaria per il futuro dei social

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Negli scorsi giorni, alla fine dell’estate, due notizie si sono accavallate e forse sono un po’ passate in sordina. Sono due vicende aperte che meritano ancora di essere seguite nel loro sviluppo, ma anche di essere analizzate già adesso.

Il casus belli

La prima viene dalla cronaca giudiziaria parigina: Pavel Durov, il multimilionario russo-francese (ha la doppia cittadinanza, e ha anche passato un periodo della sua vita in Italia), fondatore assieme al fratello di Telegram, è stato arrestato dalla polizia francese appena sceso dall’aereo privato con il quale si stava recando a Parigi.

La seconda viene dal Brasile: là un magistrato non solo è andato all’attacco dei conti di X, il social network che Elon Musk ha voluto chiamare così dopo aver acquistato Twitter, ma lo ha di fatto anche oscurato in tutto il paese (dove, lo ricordiamo, vivono 215 milioni di persone, la maggior parte giovani o molto giovani) e ha avvertito che tutti i cittadini brasiliani che sul suolo brasiliano si connettono a X con una VPN se verranno scoperti saranno multati in maniera piuttosto salata.

Cosa succede adesso

In ballo ci sono temi diversi ma riconducibili a un unico grande quesito: qual è la responsabilità dei social media? I gestori di queste piattaforme come devono organizzare e strutturare il loro funzionamento? Perché a quanto pare la domanda è aperta.

L’intervento da un lato della magistratura è accompagnato dall’altro dalle minacce di un ex presidente: il terzo caso è infatti quello di Donald Trump, che ha pubblicamente minacciato di sbattere in galera Mark Zuckerberg, una volta tornato alla Casa Bianca, se questo oserà ostacolare ancora la circolazione delle sue “verità” su Facebook e Instagram. Ci servirà tra un attimo.

Intanto, vale anche considerare un altro concetto: e cioè che se da un lato Internet è diventata la piattaforma della globalizzazione, il meccanismo di attuazione della mondializzazione, dall’altra mai come in questo caso emergono le differente (le ultime differenze?) tra popoli, culture, sistemi giuridici, aspirazioni, desideri più che legittimi (ma in contraddizione da paese a paese per via dei metodi e delle ideologie) di autodeterminare la propria vita. Un tema aperto, sul quale non c’è una soluzione apparentemente. Ma vediamo meglio.

Nessuno sa da dove passa la terza via necessaria per il futuro dei social
Immagine creata con Microsoft Designer

Le due posizioni sui social

Ora, di cosa stiamo parlando? Come detto, in sintesi, il tema sono i contenuti e gli utenti, non le piattaforme. La tecnologia non viola nessuna legge, però le persone che la usano alle volte sì. Si muovono in maniera tale da fare cose che il codice penale non permette in alcuni o in altri paesi: contrabbando, pirateria, prostituzione, deepfake, revenge porn e tutte le peggiori nefandezze possibili e immaginabili. Cose ovviamente illegali. A come si reagisce?

Esistono fondamentalmente due posizioni. La prima prevede che siano i gestori della piattaforma a farlo. Come se fossero editori di libri e giornali o di una radio o di una televisione. Succede qualcosa, l’editore non controlla e lo permette, quindi scatta la sanzione. Perfetto nel mondo di carta o analogico, ma i vari Durov, Musk e Zuckerberg dicono che è praticamente impossibile. Oppure si ergono a difensori della libertà di espressione e di pensiero. Scusa forse un po’ comoda per risparmiare i soldi di tentativi di moderazione che è intuitivo pensare che costerebbero miliardi.

La seconda posizione prevede che le piattaforme siano “innocenti”, debbano solo mettere i guard rail, dare l’accesso alla polizia e poi sono il mercato e le forze dell’ordine a regolare tutto. Una forma di controllo che accomuna America e Cina (con Russia e Iran), paradossalmente, rispetto all’approccio super-regolamentare che invece è caratteristico dell’Europa. Liberismo, controllo di governo, controllo preventivo.

Quel pasticcio brutto dei social contemporanei

Manca una terza via. Manca una strada che permetta di trovare la quadra. E forse, rispetto alle ideologie tradizionali (liberismo, statalismo, giuspositivismo) manca ancora la sua concettualizzazione. Si fa spesso un gran parlare di quanto sia necessaria la trasformazione culturale quando si parla di nuove tecnologie, industria 4.0, normative europee per l’AI, i mercati, la cybersicurezza. E poi invece si entra nel merito e si ricasca su una visione molto convenzionale e “arcaica” di quello che è il pensiero del rapporto tra il potere, gli editori e i cittadini.

Eppure, pur sapendo che ogni rivoluzione ha sempre avuto dietro un editore che lasciasse spazio alla costruzione di un nuovo pensiero e modo di intendere le cose (dall’enciclopedia della rivoluzione francese in avanti), questa volta appare clamorosa la mancanza di una editoria condivisa che, qualsiasi sia il suo strumento di espressione, vada oltre la visione tradizionale. La dispersione delle piattaforme negli infiniti rivoli dei suoi utenti, migliori o peggiori che siano, non è la giustificazione.

La realtà è che proprio le piattaforme, poche e potentissime, hanno abdicato a qualsiasi velleità rivoluzionaria dimostrando di perseguire il profitto e non certo la rivoluzione. Per citare due film di Woody Allen, hanno creato figure paradossali alla “dittatore dello stato libero di Bananas” o di “Prendi i soldi e scappa”, anziché cercare di costruire un vero cambiamento sociale e culturale.

Chi è causa del suo male

La mancanza di una terza via dunque, una via che sia fatta di bit anziché di atomi, è da intestare sostanzialmente a loro, gli “editori del nuovo mondo”, e non certo a chi invece lavora nelle istituzioni tradizionali. Chi fa le leggi non se le inventa ma esprime i bisogni e le aspirazioni consolidate della società, a partire dalle sue avanguardie. I social, intesi come imprese, evidentemente sono state delle retroguardie per quanto riguarda il pensiero digitale, mirando soprattutto allo sfruttamento delle masse online più che alla costruzione di uno stato in cui gli individui si possano realizzare pienamente.

Quindi, se c’è qualcuno che deve darsi la colpa per il disastro verso il quale si stanno dirigendo a tutta velocità i grandi social del pianeta, in mano a una banda di fondatori o proprietari che sono, per usare un eufemismo, molto originali e spesso fin troppo fuori dal comune, sono loro stessi. Chi è causa del suo male, pianga sé stesso.

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