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Una modesta proposta per trasformare l’iPad

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Nel mondo delle startup si dice che la cosa che l’azienda sta facendo è potenzialmente rivoluzionaria se è un prodotto di “livello iPhone”. Un prodotto, cioè, capace di stravolgere il mercato come fece l’iPhone al momento del suo lancio. Dopo il lancio del telefono di Apple forse solo OpenAI ha saputo fare altrettanto con ChatGPT. Molti altri prodotti sono stati successi epocali, certo, ma non di quel livello. Incluso l’iPad. Non ha avuto un successo a “livello iPhone”

Anzi, l’iPad, essendo il prodotto che arrivava da casa Apple dopo l’iPhone, nonostante la malattia di Steve Jobs, era visto da molti come il prodotto definitivo. L’attesa era enorme. Tutti in un certo senso “volevano” che fosse un successo clamoroso come l’iPhone e, in una certa misura, l’iPod dieci anni prima.

L’iPad doveva essere il computer che avrebbe riassunto tutti gli altri prodotti. E forse sarebbe stato così se, con un filo più di tempo a disposizione, Jobs magari avesse presentato Apple Watch e iPad assieme. Soppiantando smartphone e personal computer portatile in un colpo solo, con la combo di dispositivi legati tra loro che avrebbero semplificato le nostre vite per sempre. Ma non è andata così.

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Una modesta proposta

Attenzione, a scanso di equivoci, quest’articolo nasce nella sua interezza come una parodia. Se ricordate “Una modesta proposta” di Jonathan Swift, nel nostro piccolo seguiamo le orme del grande Autore. Le cose che seguono non sono né vere né rispecchiano il nostro pensiero. Anche se c’è chi scrisse che Arlecchino si confessò burlando.

La vera anima dell’iPad

La traccia per rendere l’iPad un grande iPad l’abbiamo. È scritta nel suo DNA. Se capiamo qual è, possiamo intervenire e modificarla.

Siccome l’iPadOS è una derivazione di iOS, il sistema operativo degli smartphone, sappiamo che, nonostante il travestimento di tastiere, penne e altri accessori, nel suo cuore l’iPad è uno strumento touch “puro”. Questo va capito se vogliamo cambiarlo radicalmente e renderlo il più grande successo di sempre perché ha delle conseguenze.

La vera anima è quella di una interfaccia utente e di una esperienza utente “grossa”, “maiuscola”, “in grassetto”. Detto in altre parole: sull’iPad è tutto più grosso. Più cicciotto. Più carnoso. È tutto più facile da gestire, perché il puntatore è il ditone di chi lo usa. O il ditino, per carità, dipende dalla persona.

Ma certamente, per quanto piccolo, non è una Apple Pencil. O il puntatore azionato dal mouse o dalla trackpad. Che esistono anche su iPad, per carità, ma che hanno una nuova e differente rappresentazione grafica sullo schermo del tablet di Apple, proprio per rendere “possibile” l’interfaccia nella “terra della grande imprecisione”.

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Un’interfaccia “grassetta”

Perché, a differenza del Mac e dei PC con interfaccia a finestre, l’interfaccia di iPad è volutamente imprecisa. Approssima, corregge, rende più facile interpretando cosa vogliamo fare e scegliendo lei per noi. Come la tastiera dell’iPhone, che “sceglie” quale lettera stiamo premendo anche se ne stiamo premendo un’altra sul display dello smartphone, perché le dita sono grosse e imprecise, in quella dimensione.

E sono imprecise non solo perché sono grosse rispetto al puntatore azionato dal mouse o dal trackpad (che funzionano da demoltiplica del movimento, rendendolo più “fine” di quanto non farebbero le mani), ma perché c’è anche la parallasse. Dobbiamo tenere conto che ci muoviamo nello spazio e andiamo verso lo schermo per toccarlo, mentre azionare un trackpad o un mouse vuol dire muovere solo un puntatore che è già sulla superficie dell’interfaccia. Non c’è nessuna parallasse da calcolare e viene tutto più facile e soprattutto più preciso.

E i framework di iOS/iPadOS sono gli stessi, pensati per una selezione e manipolazione limitata dei dati sullo schermo. La precisione chirurgica del mouse nelle evidenziazioni, sottolineature, selezioni, nei copia-e-incolla, sull’iPad non si riesce a farla neanche con la sua cover dedicata o con mouse o trackpad esterno. È un altro campionato, insomma.

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Il caos ordinato

L’altra grande scelta dell’iPad, di derivazione iPhone, non è solo quella di avere una interfaccia che non espone il file system, perché adesso con l’app File in pratica lo fa; o di non avere il multitasking, perché con le gesture e Stage Manager (che Dio lo perdoni) ce l’ha.

No, è che è troppo pulito, troppo ordinato. Non ha tutti quegli spazi per gli “oggetti” che sono poi documenti di vario genere (musica, testo, immagini, qualsiasi cosa) che siamo soliti affastellare sulla scrivania del Mac o nelle cartelle interne. Con vista icone, vista elenco, vista galleria (ma davvero qualcuno la usa?), vista a colonne.

La libertà di fare cose sul Mac, spostando i file dove vogliamo in finestre diverse, e di spostare le finestre come vogliamo, un po’ di qua e un po’ di là, mezze sovrapposte e mezze no, con una generale disorganizzazione formale (non per tutti, certo, ma per la maggior parte di noi è così) rende l’utilizzo del Mac estremamente flessibile. A differenza di quello dell’iPad.

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La scrivania di Einstein

Il Mac, se vogliamo, è un sistema anarchico, dove le cose girano da tutte le parti. Certo, c’è chi è ordinato come uno Svizzero e chi, come il sottoscritto, preferisce un grande caos creativo, una grande bellezza del suo archivio, dove le cose sono un po’ ovunque. È l’unico modo, e non sono certo l’unico. Lo diceva anche Albert Einstein: “Se una scrivania in disordine è segno di una mente disordinata, di cosa sarà segno allora una scrivania vuota?”

E poi, quando c’è un progetto complesso da seguire, magari la dichiarazione dei redditi da fare “pescando” informazioni da venti file e finestre diverse, creare una complessa e totalmente provvisoria (e molto precaria) architettura di finestre aperte da tutte le parti, documenti di qua e di là, icone posizionate in quella porzione della scrivania dove devono restare sennò non si capisce più cosa va fatto prima e cosa dopo.

Se pensate che sia disordine caotico, vuol dire che non avete mai fatto la vostra dichiarazione dei redditi: il caos è l’unica risposta possibile per capire cosa vuole il fisco da noi.

Tra Spotlight e Sherlock

Gmail, la posta di Google che non si organizza perché “si cerca”, e la funzione “Cerca” dei PC (Spotlight su Mac, prima si chiamava Sherlock, ma c’è l’equivalente ovviamente anche per Windows e Linux), ci hanno insegnato a perseguire ulteriori approcci caotici nella gestione dei documenti.

Tenerli tutti sommariamente affastellati in qualche cartella e poi trovarli con dei gran “cerca”. Non è una strategia figlia di un deficit Invalsi. È invece necessaria perché i documenti che una persona deve gestire nel corso degli anni sono sempre tantissimi. Troppi. Ingestibili. E ogni anno che passa se ne aggiungono ancora altri, sempre di più.

Due strumenti, unici sul mercato, cioè l’iPhone e l’iPad (più Android, ovviamente), continuano a pensare che siamo tutti esordienti: ragazzini senza un debito tecnologico pregresso. Senza storia e senza documenti. Pronti a usare interfacce “pulite” pensate per mostrare dieci-venti documenti in tutto. E finita lì.

Effettuare calcoli e conversioni in Spotlight

Quando iPhoto era pieno con 100 immagini

È un limite che non è nuovo, ma con il quale bisogna prima o poi fare i conti. Un esempio? Accadeva con le foto dentro le gallery di iPhoto, il precursore dell’attuale Foto. Che all’inizio, quando si chiamava ancora iPhoto, andava in palla se c’erano dentro più di mille e poi diecimila immagini. Solo che sono passati trent’anni e chi è più vecchio di foto ne ha accumulate molte di più: centomila? Duecentomila?

La memoria del computer le contiene senza problemi. Il problema è la loro rappresentazione, la loro interfaccia, le metafore usate. Le metafore delle interfacce sono come le parole rispetto alle idee: se non ci sono le parole, diceva Wittgenstein, non si riesce a pensare l’idea. Se non ci sono le metafore nelle interfacce non si riescono a pensare le cose.

E la domanda diventa: quale interfaccia utente è più adatta per gestire una vita digitale, visto che sempre più la nostra vita è dentro il cloud e dentro i computer?

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Come riorganizzare i nostri dati e le nostre teste?

Attenzione, non solo l’interfaccia iPhoto/Foto. Anche altre app, come Libri, ad esempio. E non solo le app di Apple. Anche il Kindle di Amazon ha una interfaccia pensata per i “ditoni” e come conseguenza mostra in maniera chiara dieci-venti libri. Più di quelli vuol dire che avete svaligiato Kindle Unlimited inutilmente, perché tanto non li leggerete mai.

Serve avere tutti questi dati da tenere in disordine sui nostri dispositivi? Probabilmente no, ma è anche una proiezione delle nostre vite, dato che con la digitalizzazione passa tutto dai faldoni, dagli album di foto, dalle filze di CD e vinili, dai libri sugli scaffali, dalle scatole di documenti e cose varie in casa e in soffitta e negli sgabuzzini alla loro versione digitale nelle cartelle “fuori mano” del nostro computer.

Una prova al contrario? È vero che i dispositivi oggi costano un rene, ma se non esistesse il cloud e qualcuno ci rubasse il telefono privo di backup a devastarci non sarebbe il danno economico dell’apparecchio, quanto quello sociale e psicologico dei dati che conteneva.

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Una modesta proposta

Come fare per fare in modo che l’iPad sia in grado di gestire tutta questa complessità di informazioni in maniera usabile e non ordinarle, come un contabile, rendendole totalmente “fredde”, con una interfaccia palesemente inadatta a manipolarle in finezza?

La nostra risposta, la ricetta per guarire l’iPad dalla sua “iphonite”, non è cambiare l’interfaccia. Non è trasformarlo in un ibrido, in un ircocervo capace di fare tutto, passando dal bosco alla riviera senza fare un plissé. La risposta, insomma, non è la pizza “mari e monti” con anche le fette di Ananas, le crudité di verdura e la senape sopra le acciughe e i funghi.

No, la nostra modesta proposta è molto più semplice. Buttiamo via l’iPad. Mettiamo il touch al Mac, lo schermo che ruota (o si stacca), e chiamiamolo iPad. Semplice, no?

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