Lo potete chiamare in tanti modi diversi, ma forse “patto con il diavolo” è la sintesi migliore. Il Financial Times, il giornale britannico che ha la corona e il primato assoluto e indiscusso dell’informazione finanziaria e di qualità nel mondo, di proprietà del gruppo giapponese Nikkei, ha deciso di allearsi con OpenAI.
L’accordo
I punti dell’accordo sono semplici. Il Financial Times ha siglato una “partnership strategica” e un accordo di licenza con OpenAI, con l’obiettivo di migliorare la qualità di ChatGPT con i suoi contenuti e incorporare il lavoro di decenni di generazioni di giornalisti specializzati.
Grazie a questa partnership, gli utenti del chatbot di OpenAI potranno vedere riassunti, citazioni e link attribuiti ai giornalisti del Financial Times in risposta alle loro domande. In cambio, OpenAI coinvolgerà l’azienda giornalistica nello sviluppo di nuovi prodotti di intelligenza artificiale.
La mossa del Financial Times
Il giornale rosa per antonomasia (no, non sono stati né la nostra Gazzetta né tantomeno il Sole 24 ORE a scegliere quel colore per la carta) è stato spinto a questo accordo dalla disperazione? Tutt’altro. Proprio il mese scorso, l’editore ha introdotto una funzione di ricerca generativa di AI in versione beta, basata sul modello linguistico Claude di Anthropic. L’azienda si sta muovendo, cerca di capire come domare la “bestia” dell’intelligenza artificiale, che forse insidia il lavoro dei giornalisti e degli editori o forse lo facilita.
Intanto, questo annuncio segna il primo grande editore di notizie pubblicate su carta con sede nel Regno Unito ad annunciare un accordo con la società di AI, seguendo le orme di Politico, Business Insider e del gruppo editoriale Axel Springer. Inoltre, anche l’Associated Press, Le Monde ed El País hanno finora firmato accordi con OpenAI.
Se vi sembra che manchi qualcosa, avete ragione. Mancano i nostri editori con i loro giornali. Forse perché è mancato un Marchionne della carta stampata che abbia capito che in Europa e nel mondo c’è posto per una grande testata autorevole per ciascuna lingua, che deve essere in grado anche di “parlare” in inglese al resto del mondo. Le Monde ed El País lo fanno. I nostri campioni di giornalismo tradizionale mica tanto.
Per i paesi naturalmente anglofoni le cose sono diverse ma gli spazi non mancano: dal Guardian al Financial Times nel Regno Unito alla tripletta New York Times, Washington Post e Wall Street Journal negli Usa. Tutti che cercano di trovare la postura vincente rispetto al cambiamento tecnologico, una vera e propria discontinuità, introdotta dall’intelligenza artificiale.
Dove va il Financial Times
Dove sta andando il gruppo nippo-britannico dell’informazione finanziaria e di qualità? Intanto, bisogna rilevare una cosa: come accade sia per le grandi agenzie di stampa (Associated Press in testa), i giornali a sfondo economico hanno una particolarità iscritta nel loro codice genetico. Contengono delle informazioni accuratamente calibrate e filtrate.
Certo, ci sono rubriche di commento, ci sono supplementi culturali e paginate di esteri e un po’ di cronaca politica o nera, come in ogni giornale. Ma il centro del business è quello di produrre informazione economica, che ha regole e caratteristiche molto particolari. È verificata, vagliata, pesata e archiviata in maniera da essere reperibile a mo’ di banca dati.
Infatti i giornali di questo tipo hanno spesso una linea di affari legata alla vendita di servizi di banca dati per le aziende. Interrogando i terminali si scoprono le mosse delle altre aziende nel passato: informazioni preziose e “oggettive” che c’è chi è disposto a pagare per poterle consultare.
L’esercitazione delle AI
Tutto questo ovviamente fa molta gola a chi produce intelligenza artificiale addestrando i grandi modelli base. Infatti, nel braccio di ferro tra AI e giornali, le cause legali che hanno bloccato l’accesso all’addestramento dei vari ChatGPT all’utilizzo dei materiali di archivio dei siti di informazione sono particolarmente “dolorose” perché gli informatici sanno che là, in quella mole di dati strutturati, verificati e curati con certosina attenzione dai monaci dell’informazione attraverso i decenni ci sono i testi con i quali dare una buona educazione alle nascenti AI.
La perdita di aderenza a quel terreno ben fatto rende più scivolosa la vita delle AI perché le porta a farsi addestrare su una massa informe di cose vaghe, vacue, spesso comunicati stampa ed espettorazioni della maggioranza verbosa, dai blog alle polemiche sui social sino alle improbabili moli di libri del self-publishing, che nei paesi anglosassoni si chiama “vanity-press” e di cui Dante non ha parlato nell’Inferno solo perché non era ancora stata inventata la stampa a caratteri mobili quando il Sommo Poeta vergava con la piuma dell’oca i suoi pensieri in terzine a rime alterne.
Il senso dell’accordo
Ecco dunque che la mossa del Financial Times fa pensare che, oltre a guadagnarci dei soldi e avere il controllo di parte della narrazione, il giornale del gruppo Nikkei voglia in qualche modo conquistare una posizione di prominenza nei risultati delle interrogazioni a ChatGPT, che sempre più spesso viene usato come motore di ricerca in alternativa a Google.
In realtà, però, a guadagnarci veramente è OpenAI, perché può mandare ChatGPT alla scuola “buona”, il liceo più prestigioso della cittadella dell’informazione. In questo modo, sperano forse gli uomini e le donne di San Altman, il loro GPT diventerà qualcosa di molto più efficace e ben preparato rispetto alla concorrenza. Saprà parlare in punta di forchetta e rispondere a modo, con risultati oltretutto sensati e circostanziati, senza inventarsi nulla e senza delirare, in preda alle allucinazioni di una adolescenza digitale tutt’altro che felice.
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