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Un anno dopo, ChatGPT è ancora un mistero

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È passato un anno giusto giusto dal lancio ufficiale per il grande pubblico dei chatbot, cioè di ChatGPT versione 3, e più in generale del concetto di intelligenza artificiale come concetto che entra nella vita di tutti noi. È passato un anno e ancora ci stiamo capendo molto poco. Però abbiamo la sensazione che stia cambiando tutto.

Si sprecano infatti articoli e speciali televisivi dedicati alle AI e al modo con il quale travolgono e stravolgono la nostra società: fanno fuori le istituzioni per come le conosciamo, i posti di lavoro, l’organizzazione delle cose, lo stato e la società stessa. Le AI stanno diventando un pericolo per la società? Vanno regolamentate? Potrebbero distruggere tutto quel che conosciamo?

Apocalittici e integrati

Lo scenario apocalittico si alterna a quello super-integrato dei profeti, dei furbi e dei semplici credenti nelle nuove tecnologie, divisi tra militanti e già che ci siamo anche qualche martire. L’Intelligenza Artificiale riscrive le pagine della storia tecnologica ma anche dei progetti per realizzarla, delle nuove opportunità di lavoro e dei nuovi sistemi per far funzionare questo lavoro. L’intelligenza artificiale potrebbe semplificare e riscrivere le leggi, potrebbe ristrutturare i rapporti tra le aziende e il pubblico, potrebbe cambiare il modo con il quale le persone fanno le cose al lavoro e nel loro tempo libero, potrebbe cambiare le nostre relazioni con gli altri e con noi stessi. Una AI per amica, come psicologa, come assistente e come oggetto di attenzioni emotive.

Niente che Hollywood non avesse già visto, intendiamoci, solo che adesso la tecnologia arriva e cambia il sapore con cui si presenta. Cambia anche il modo con il quale le persone si aspettano di usarla. Alcune più e altre meno consapevolmente, in maniera molto americana (perché dopotutto è una tecnologia americana, così come l’informatica personale fatta di personal computer, apparecchi post-pc e sistemi cloud) tuttavia tutti si aspettano che funzioni in maniera molto automatica e presente, puntuale.

DeepFake e dintorni

E poi ci sono quelli che se ne approfittano. Intendiamoci, dei DeepFake ci siamo sempre saziati in abbondanza nel mercato mediale sin dagli anni Novanta quando è nato Photoshop e sono apparsi i volti di persone celebri sui corpi di altre persone (magari performer del settore pornografico). Prima si chiamava “gossip” o maldicenza ed esisteva dalla notte dei tempi. E i social hanno fatto e fanno da amplificatori e manipolatori dell’opinione pubblica per conto di aziende (per i consumatori) e partiti politici (per gli elettori). Niente di nuovo.

Tuttavia, a un anno dal lancio di ChatGPT l’impatto si fa sentire sulle campagne elettorali che sono diventate terreno di scontro tra sistemi di intelligenza artificiale generativa. E che scontro! Ad esempio a Taiwan, così come in Argentina, i candidati delle differenti parti si sono attaccati e si sono autopromossi a colpi di immagini generate.

Dopo il ban a ChatGPT pronta la task force per controllarlo

Il prompt della politica

L’intelligenza artificiale, che costa pochi dollari al mese, ha democraticizzato l’accesso alla comunicazione di massa in generale e alla manipolazione in particolare. Per creare dei video elettorali prima ci volevano dei costosi “creativi”, dei tecnici e molti soldi per portare avanti il progetto. Invece, al di là di una certa destrezza e senso dell’orientamento tecnologico, oggi basta formulare un prompt, una domanda ben fatta nella stringa di testo che viene inserita in fase di input del sistema, per creare un output con annesso deepfake dell’avversario in situazioni imbarazzanti o, al contrario, fare una cernita e una selezione dei simboli cari all’elettorato, e metterci ovviamente il proprio candidato in mezzo.

Se la vogliamo vedere da una terza ottica, l’idea che molti si stanno facendo è che sia finita un’epoca dell’informatica come “universo deduttivo”, in cui chi scrive i programmi, cioè l’insieme di regole dalle quali la macchina automatica deduce cosa deve fare, è al vertice. E si stia entrando invece in un “universo induttivo”, in cui cioè basta prendere un animaletto selvaggio, il modello di intelligenza artificiale da noi preferito, addestrarlo con i dati che vogliamo e questo poi induce da solo dagli esempi cosa deve fare.

La terza via dell’AI

Questa terza ottica, né apocalittica né integrata ma più tecnologicamente deterministica, talvolta insinua qualcosa che in realtà dimentica di chiarire anche a se stessa. Insinua infatti che sia finita l’epoca dell’informatica così come la conosciamo ed entriamo in un nuovo mondo, un nuovo modello fatto di qualcosa di diverso che chiamiamo intelligenza artificiale. In realtà dimentica e non chiarisce neanche a se stessa che si tratta in realtà di un sottoinsieme della stessa cosa.

L’intelligenza artificiale è una branca dell’informatica, non un’altra cosa. E la chiave per continuare a capire e dominare o quantomeno guidare nella direzione che vogliamo la nostra vita digitale e questo mondo in cui – questo sì – tutte le interazioni sono sostanzialmente sempre mediate da un computer, è capirci qualcosa. Avere una intelligenza nostra, umana, capace di adattarsi e comprendere i fenomeni che accadono dentro al computer.

Una forma di pensiero computazionale, una cultura digitale che ci consenta di capire che, come le automobili dentro non hanno dei diavoletti di Cartesio o dei minuscoli cavalli al vapore ma pistoni, cilindri, bielle e via dicendo (nel caso di motori endotermici, perlomeno) che generano il moto con delle regole di coppia, di momento di inerzia, di spunto e così via: ebbene, che nei sistemi di intelligenza artificiale, per quanto resi “umani” e capaci di ingannare l’occhio del profano ignorante delle cose digitali, ci si trova davanti né più né meno che a un tipo particolare di computer con un tipo particolare di software. Niente di più, niente di meno.

Un anno per capirlo è abbastanza tempo, forse sarebbe l’ora che questo concetto passasse nella società, nella politica, nell’economia e soprattutto nella scuola. O no?

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