Il premio Nobel per la letteratura, come vedevamo nella prima e nella seconda puntata di questa serie in tre parti, esiste dal 1901 e, a parte alcune edizioni che non si sono tenute causa guerra (e per un paio di rinunce), i suoi 110 vincitori rappresentano uno “spaccato” della letteratura mondiale incredibile. Il meglio del meglio.
Certamente, soprattutto nei primi anni del Novecento, la letteratura europea (francese in particolare) e poi quella anglosassone (americana soprattutto) sono state decisamente sovrarappresentate. Ma negli ultimi anni il premio Nobel ha acquisito una caratura sempre più “forte” e internazionale, inclusiva e aperta alla pluralità di menti e talenti che popolano il nostro pianeta, facendo della letteratura (romanzi e poesia) uno strumento non solo per conoscere e celebrare il mondo, ma anche per combattere i soprusi e l’oppressione. In ogni caso, letture favolose.
Qui trovate tutti gli articoli con i Migliori libri di Macity raccolti in un’unica pagina.
Mattino e sera
Non si può cominciare dal norvegese Jon Fosse, vincitore del Nobel 2023, drammaturgo e scrittore classe 1959. Considerato dal Daily Telegraph uno dei 100 geni viventi, ha vinto “per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile”.
La sua scrittura è enorme ma è quasi minuscola rispetto alla sua incredibile inventiva. Un bambino viene al mondo; si chiamerà Johannes, sarà un pescatore. Un uomo ormai anziano muore; si chiamava Johannes, era un pescatore. Questo libro si estende tra i due estremi della vita, come tra i due estremi del giorno, tra i pensieri di un padre che vede nascere suo figlio e quelli di un vecchio che affronta le cose di ogni giorno, nel suo ultimo giorno, cose sempre identiche, riconoscibili, eppure definitive.
La montagna dell’anima
Cinese, classe 1940, Gao Xingjian ha vinto il premio Nobel nel 2000, il primo scrittore (ma è anche drammaturgo, saggista, pittore e cineasta) di quella nazionalità a vincerlo (anche se già dal 1998 era naturalizzato francese) “per un’opera dal valore universale, intuito pungente e ingegnosità linguistica che hanno aperto nuove strade al romanzo e al teatro cinese”
Questa è l’opera più nota del premio Nobel per la letteratura 2000. È il racconto, in gran parte autobiografico, di un lungo viaggio nella Cina del sud-ovest, compiuto da uno scrittore perseguitato dal regime e al quale, per errore, è stato diagnosticato un cancro. Il viaggio è dunque l’occasione di un bilancio esistenziale e fonte inesauribile di nuove esperienze. E il libro diviene romanzo picaresco in cui si intrecciano avventure di feroci briganti e tristi storie di fanciulle suicide per amore, saggio enciclopedico sugli animali e le piante della foresta, sugli usi delle popolazioni tribali, sulla storia classica e contemporanea, riflessione politica sulla Cina comunista, ricerca filosofica, storia d’amore. Un romanzo mondo indimenticabile.
Sorgo rosso
Nato nel 1955, Mo Yan è il secondo scrittore e saggista cinese di questa lista dei migliori libri degli autori che hanno vinto il premio Nobel curata da Macity. Mo Yan ha vinto il Premio Nobel nel 2012. La motivazione è per un autore “che con un realismo allucinatorio fonde racconti popolari, storia e contemporaneità”.
Il suo libro più famoso è indubitabilmente quello che tutti conoscono e che è stato anche adattato magnificamente in film. Un affresco fiammeggiante di storia cinese, dagli anni Trenta agli anni Settanta, raccontati da un giovane della provincia che ripercorre i drammi, gli amori, i lutti della propria famiglia. Un romanzo che per la sua forza mitica e immaginativa è stato avvicinato a *Cent’anni di solitudine*.
Poesia dal silenzio
Tomas Tranströmer è uno scrittore ma soprattutto poeta svedese, nato nel 1931 e scomparso nel 2015. Ha vinto il premio Nobel nel 2011 “perché attraverso le sue immagini condensate e traslucide, ci ha dato nuovo accesso alla realtà”. Prima di lui l’ultimo poeta premiato era stata l’autrice polacca Wisława Szymborska, nel 1996.
Voce fondamentale del mondo letterario internazionale, le sue liriche sono state finora tradotte in quarantasei lingue. Testimoniata da notevoli riconoscimenti critici, la sua funzione ispiratrice emerge anche da ammissioni di debiti “creativi” nei suoi confronti da parte di molti poeti: in particolare le giovani generazioni statunitensi, formatesi sui suoi testi letti e studiati nelle università, e polacche, per le quali Tranströmer è da tempo divenuto un vero e proprio cult poet.
“Confessioni” di “furti di immagini” giungono da Premi Nobel come Iosif Brodskij; espressioni di stima e ammirazione da Bei Dao, Seamus Heaney e Derek Walcott. Kjell Espmark, poeta e critico membro dell’Accademia di Svezia, afferma che, con Strindberg e Swedenborg, Tranströmer è lo scrittore svedese che più ha influenzato la letteratura internazionale.
Le radici della sua poesia affondano nella tradizione modernista, soprattutto simbolista. Vi si avvertono influenze dell’estetica baudelairiana delle corrispondenze, del programma imagista nonché del Surrealismo nella composizione e scomposizione di immagini che sembrano scaturire direttamente dal sogno. Di T.S. Eliot Tranströmer condivide i concetti di storia e tradizione e il metodo di cogliere, sebbene in forma più impersonale, realtà immanenti attraverso osservazioni oggettive. Questa raccolta costituisce un punto di partenza per conoscere la lirica di uno dei maggiori protagonisti della poesia del nostro tempo.
La zia Julia e lo scribacchino
Mario Vargas Llosa è un peso massimo della letteratura, senza bisogno di Premi Nobel. Però l’autore peruviano nato nel 1936 l’ha vinto nel 2010 e con moltissimo merito. Esponente della grande letteratura latinoamericana contemporanea, assieme a Gabriel García Márquez, Julio Cortázar e Carlos Fuentes, ha scritto moltissimo e sempre ad altissimi livelli.
Tra le tante opere, questa è una delle più spettacolari e picaresche. Vi si narra la vicenda o meglio la carriera, di Pedro Camacho, fecondissimo produttore boliviano d’intrecci (lo chiamano anche “il Balzac creolo”) che, chiuso in una mefitica stanzetta, sforna trame melodrammatiche e truculente per un programma di feuilleton di Radio Lima. Tutti attendono con impazienza le puntate della sua fantasia, ma improvvisamente le differenti trame di appendice prendono a confondersi tra loro. Camacho è impazzito e sarà degradato a galoppino d’una rivista di sicuro fallimento. D’altro lato, ecco invece la storia di Mario, giovane aspirante scrittore attratto da questa curiosa macchina dell’immaginario che ci racconta una sua complicata storia: s’innamora di una zia vedova e più matura che finirà per sposare.
Il paese delle prugne verdi
Herta Müller è una scrittrice e poetessa tedesca nata in Romania nel 1953. È famosa soprattutto per aver descritto con le sue opere le condizioni di vita in Romania durante la dittatura di Nicolae Ceaușescu. Ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2009 perché «ha saputo descrivere il panorama dei diseredati con la forza della poesia e la franchezza della prosa».
Nella Romania degli anni Ottanta, quasi sospesa nel tempo, quattro giovani si ritrovano uniti dal suicidio di una ragazza di nome Lola. Da quel dolore e dalla consapevolezza di vivere in un Paese sottomesso alla dittatura, scaturisce un comune anelito di libertà che si nutre di letture e pensieri proibiti. Ben presto però i quattro devono fare i conti con l’onnipresenza del terrore. Agli interrogatori sistematici della polizia segreta, ai pedinamenti e agli atteggiamenti intimidatori segue la perdita del lavoro e, quand’anche si riesca a espatriare, ecco che le minacce proseguono e la morte ritorna sotto forma di misteriosi suicidi. In tutta questa oscurità, l’amicizia e l’amore sopravvivono. Grazie a uno stile evocativo e immaginifico, Herta Müller (che come la protagonista del romanzo appartiene a una minoranza di lingua tedesca della Romania) riesce a trovare e far scaturire la poesia persino dal degrado materiale e spirituale di un’intera nazione.
Il taccuino d’oro
Figlia di un ufficiale britannico reduce della prima guerra mondiale sposato con l’infermiera che lo aveva accudito dopo le tremende cure (e le numerose amputazioni) subite a causa delle ferite riportate in guerra, Doris Lessing (il suo cognome da ragazza era Tayler) è stata un personaggio incredibile, oltre che una scrittrice straordinaria. Nata nel 1919 nello Zimbabwe ma di origine britannica, e scomparsa nel 2019, ha vinto il premio Nobel per la letteratura 2007 perché «cantatrice dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa».
A lungo candidata e poi scartata al Nobel per aver cessato di scrivere opere di letteratura femminista ed essersi invece dedicata alla fantascienza e a libri sui gatti (animali che amava profondamente) Doris Lessing ha scritto molto ma forse questo è il romanzo che rappresenta una sorta di ‘summa’ dei suoi temi, dei suoi problemi e delle sue suggestioni. La protagonista, Anna Wulf, non può esimersi dall’analizzare i mille motivi che costituiscono la sua vita, motivi di ordine politico, sociale e anche sessuale.
Così gli spunti, i pensieri, gli eventi di cui il libro formicola, si raccolgono in quattro taccuini, di cui quello d’oro rappresenta un po’ la quintessenza: e il loro insieme dà luogo a una narrazione distesa e insieme concentrata e intesa, a una panoramica della vita di una donna intensamente partecipe del nostro tempo. E nel libro c’è un po’ di tutto: la minaccia atomica, i rifugiati politici nell’Africa Centrale, le barriere razziali, i rapporti dei genitori coi figli, spesso singolarmente conformisti e mancati suicidi, l’industria culturale, i rapporti degli uomini con gli uomini in un’atmosfera di fluttuante omosessualità, i rapporti delle donne con le donne, vagamente ambigui, e specialmente delle donne con gli uomini e molte altre cose.
Il mio nome è Rosso
Orhan Pamuk è nato a Istanbul nel 1952 ed è lo scrittore turco contemporaneo più letto al mondo e uno dei più letti in generale. Ha uno stile che mescola il reale al fiabesco con storie complesse e articolate, piene di personaggi complessi. È stato il primo turco a vincere il premio Nobel nel 2006 perché, “nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”.
Il suo primo libro famoso è un’opera che potrebbe sembrare un giallo storico, almeno di primo acchito, ma che in realtà è molto di più. Ambientato a Istanbul nel 1591 racconta una storia complessa. Tra i miniaturisti e illustratori al lavoro nel Palazzo del Sultano si nasconde un feroce assassino. Per smascherarlo Nero è disposto a tutto, anche a rischiare la vita. Perché se fallisce, per lui non ci sarà futuro con la bella Sekure, non ci sarà l’amore che ha sognato per dodici anni.
Tradimenti
Nato e morto a Londra (1930-2008) Harold Pinter è quanto di più britannico si può immaginare e al tempo stesso quanto di meno è possibile trovare. Drammaturgo, regista teatrale, attore teatrale, sceneggiatore, è stato anche poeta e scrittore. Ha vinto il premio Nobel nel 2005 “perché nelle sue commedie [egli] scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione”
Questo teso teatrale in prosa è un piccolo capolavoro, pieno di personaggi che mentono. Dall’introduzione: «Spesso – ha detto in passato Pinter, nella sua franchezza quasi infantile, a Lawrence Benski – mi guardo nello specchio e penso: “Ma chi diavolo è quel tipo là?”». E, ancora, in un’altra intervista: «Nulla mi sembra esistere di più concreto e di più sfuggente di un essere umano». Non sono battute «giuste» per Emma, Jerry, Robert? Non si celano, tra le righe, battute disarmanti come queste in quella chiusa, dura come un’inoppugnabile sentenza, della prima scena di Tradimenti (che, però, è l’ultima, a livello della vicenda): «Non importa. È tutto passato. Sì? Che cosa è passato? È tutto finito».
Dati personali
Elfriede Jelinek, classe 1946, è una scrittrice, drammaturga e traduttrice austriaca. Nel 2004 le è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura “per il flusso melodico di voci e controvoci in romanzi e testi teatrali, che con estremo gusto linguistico rivelano l’assurdità dei cliché sociali e il loro potere”. Voce femminile più innovativa e provocatoria del nuovo millennio, ha usato violenza, sarcasmo e incantesimo per analizzare e distruggere stereotipi sociali e archetipi del sessimo.
Una delle sue ultime opere è forse una delle migliori in assoluto. Un’indagine della guardia di finanza austriaca, che ha coinvolto molti importanti scrittori e artisti, diviene l’occasione per Elfriede Jelinek di guardare indietro nel tempo e stilare un bilancio della sua vita e del suo lunghissimo percorso di autrice di romanzi, saggi e teatro. Sono due, perlopiù, le strade di questo intimo quanto feroce memoir che ora si intrecciano, ora si separano, ora tornano a collidere: quella della sua famiglia ebraica – di cui Jelinek racconta qui per la prima volta –, della fuga dall’Austria durante l’incubo nazista, delle deportazioni e degli assassinii. E quella direttamente legata al caso finanziario, che vede l’autrice riflettere sui flussi globali dei capitali e di come, durante i decenni, questi si siano mossi e rinverditi spesso anche grazie ai beni ebraici espropriati durante il regime nazista e che mai sono ritornati nelle mani dei loro legittimi proprietari. Mentre, ed è paradossale, dopo la fine del secondo conflitto mondiale si è spesso provveduto a risarcire, senza esitazioni, molti personaggi legati al nazismo.
Tanto autobiografico quanto universale, tanto sarcastico quanto rabbioso, Dati personali è la resa dei conti in cui Jelinek affronta se stessa e il dramma della sua famiglia, ma anche una società che è sempre – ed è sempre stata – più interessata ai carnefici che alle vittime e che permette ai pochi miliardari del nostro pianeta di divenire ancora più ricchi. Critica sociale e aspetti privati si mescolano con un ritmo incalzante, trasformandosi in un’invettiva spietata che il premio Nobel austriaco rivolge a tutta la società moderna, andando alla ricerca di risposte a domande vecchie e nuove che da sempre accompagnano la sua esistenza ma che, in fin dei conti, riguardano anche tutti noi.
L’infanzia di Gesù
J. M. Coetzee è sudafricano nato nel 1940 e naturalizzato australiano. Ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 2003 con una serie di libri estremamente eterogenei con la motivazione “che in innumerevoli maschere ritrae il sorprendente coinvolgimento dello straniero”. Ha scritto opere di narrativa ma anche di critica ed è stato professore, linguista, traduttore. È uno degli esponenti chiave del movimento postmodernista e postcolonialismo del XX secolo.
Questo, scritto nel 2023, è il libro più misterioso e affascinante di J. M. Coetzee. Eppure è anche il racconto più semplice di tutti: quello dell’amore di un «padre» per un «figlio». Un uomo adulto, quasi anziano, e un bambino sbarcano a Novilla. Novilla non è la loro città, lo spagnolo non è la loro lingua: ma come tutti gli abitanti della città, con cui condividono il misterioso destino, vi sono giunti dopo un viaggio in mare e non conservano nessun ricordo delle loro vite precedenti. Non sanno da dove vengono, a chi erano legati, quale evento catastrofico li ha condotti fin lì come profughi. C’è solo una cosa che Simón, l’uomo, sa: deve prendersi cura di questo bambino che ha conosciuto sulla nave, deve accudirlo anche se non è suo figlio, anche se nulla lo lega a lui. Anche se David si dimostra presto un bambino molto particolare. E sa che deve aiutarlo a ricongiungersi con la «madre».
Essere senza destino
Imre Kertész è nato a Budapest nel 1929 e là è morto nel 2016. Lo scrittore ungherese, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, ha vinto il Premio Nobel nel 2002 “per una scrittura che sostiene l’esperienza fragile dell’individuo contro l’arbitrarietà barbarica della storia”
La sua opera più nota è anche la più dolorosa. Gyurka non ha ancora compiuto quindici anni, quando una sera deve salutare il padre costretto a partire per l’Arbeitsdienst. Alla domanda perché agli ebrei venga riservato un simile trattamento, il ragazzo rifiuta di condividere la risposta religiosa, “questo è il volere di Dio”. Perché dovrebbe esserci un senso in tutto questo? Poco dopo Gyurka viene arruolato al lavoro forzato presso la Shell, e da lì, un giorno, senza spiegazione, viene costretto a partire per la Germania. La voglia di crescere, di vedere e imparare, l’impulso vitale di questo ragazzo sono così marcati e prorompenti, che la sua “ratio” trova sempre una buona ragione perché le cose avvengano proprio in quel modo e non in un altro.
Gradini che non finiscono mai
Cambiamo “categoria”, ma che lista dei migliori di Macity sarebbe se non ci fosse un fuorisacco? E quel fuorisacco è il libro scritto da Giorgio Parisi con Piergiorgio Paterlini. Parisi, italiano, classe 1948, ha vinto il premio Nobel per la fisica nel 2021 per i suoi studi sui sistemi complessi.
Cosa fa nella vita un fisico teorico che arriva per primo a scoperte fondamentali fino a vincere il Premio Nobel? Pensa, ragiona con altri fisici e calcola. Molte intuizioni cruciali in tutta l’esistenza, frutto di miriadi di calcoli e di ipotesi, a volte esatte a volte sbagliate, che, in un attimo o nel corso degli anni, svelano una parte del mistero che ci avvolge con conseguenze spesso impensate e imprevedibili.
Giorgio Parisi ha seguito la sua passione per i numeri fin da piccolo, un talento alimentato da grandi maestri all’università e cresciuto in un confronto costante con la comunità scientifica internazionale. A fianco di uno straordinario percorso professionale, in questa autobiografia Parisi racconta la sua vita privata dietro i riflettori, la parabola di un bambino che amava la matematica e che è riuscito a diventare un grande scienziato. Le origini della sua famiglia, l’incertezza sugli studi durante tutto il liceo, la solitudine fino all’università, la frequentazione stretta non solo degli scienziati ma anche di scrittori come Luce d’Eramo e Ignazio Silone. E l’amore della sua vita, Daniella, il rapporto con i figli e i nipoti, la passione per la musica e la politica.
Fino ad arrivare al mistero della coscienza, alla paura e all’accettazione dei nostri limiti, come uomo e come scienziato, ma anche alla fiducia in ciò che ci rende davvero umani: la diversità che ci sorprende, i sogni che ci ispirano, l’amore che ci scalda.
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