Questa foto che state guardando, non esiste. Non è possibile scattarla. Neanche la seconda. Lo scatto viene da una nuovissima Leica M6, la riedizione 2022 della macchina fotografica a pellicola del 1984 (nome in codice, neanche a farlo apposta, “1984”). Ma l’obiettivo con il quale è stato impressionato il fotogramma del rullino CineStill 400 ISO a colori è un obiettivo sperimentale, che non è mai entrato in produzione.
Studiato negli anni duemila, doveva essere l’erede di un’altra coppia di obiettivi rarissimi prodotti da Leica per il sistema M. Obiettivi a tripla focale fissa: i mitologici Tri-Elmar originariamente realizzati nelle focali di 16-18-21mm e 28-35-50mm, e oggi disponibili ma solo con il Tri-Elmar-M 16-18-21 f/4 asferico e relativo aggiuntivo ottico universale.
Nelle intenzioni, con quella coppia di obiettivi si potevano coprire tutte le focali per un reportage: dal ritratto con il 50 sino al grandangolo spinto da 16mm. In realtà Leica produsse prima il Tri-Elmar 28-35-50 come obiettivo “universale” e poi, quando lanciò la sua prima fotocamera M digitale, la M8, che aveva il sensore Aps-H, per mantenere lo stesso angolo di visione anche con il crop del sensore, produsse la lente a maggior ampiezza di focale.
Tuttavia Leica non era soddisfatta e ha lavorato anni per produrre un obiettivo che non è andato mai oltre la fase di prototipo. Ne sono stati realizzati una dozzina, li vedete nella cassetta custodita negli archivi a cui ho avuto accesso per qualche minuto, e di questi solo un paio sono più o meno funzionanti. Abbiamo chiesto di scambiare l’obiettivo della Leica M6 in prova, il nuovo Summilux-M 35mm f/1.4 pancake nome in codice Zurigo (gli obiettivi Leica hanno tutti un nome in codice di città), con il prototipo di Vario-Elmar-M 28-35-50-75 con apertura variabile f/3.4 f/4 ed f/5.6.
È stata una emozione: questo obiettivo formalmente non esiste, non è mai andato in produzione e ha scattato pochissime foto. È un obiettivo unico che permette tuttavia di apprezzare cosa Leica fa e cosa smette di fare perché non è soddisfatta. Per ogni “sì”, insomma, tantissimi “no”.
In questo caso Leica ha deciso, nelle parole del responsabile che ci ha mostrato l’obiettivo a quattro stadi, di non produrlo perché “non raggiungeva la qualità richiesta”. L’obiettivo che abbiamo montato era in perfette condizioni estetiche ma non meccaniche, con un problema nell’attuazione della focale più lunga. La logica di questo, come del Tri-Elmar, è quella di un obiettivo che ha una ghiera dedicata per far cambiare focale, una ghiera per la messa a fuoco e una per i diaframmi. Come tutti gli obiettivi Leica della serie M è religiosamente meccanico, non c’è alcun automatismo, e funziona in qualsiasi condizione senza bisogno di alcuna batteria se non per l’esposimetro.
Anzi, con la “nuova” M6, di cui abbiamo parlato qui, che ospita frontalmente nel corpo una batteria a bottone per alimentare l’esposimetro (e che, se lasciata con il tempo B per le lunghe esposizioni, si spegne e quindi non esaurisce la batteria dopo un anno, a differenza della versione del 1984) si può fare tutto anche senza la piccola batteria. Come dicevano i vecchi fotografi, “La M6 funziona decisamente meglio senza batterie: quelle piccole luci rosse nel telemetro portano solo dubbi e cattive esposizioni”.
L’archivio di Leica
La visita all’archivio di Leica, dove sono conservati documenti, foto, film originale sviluppato con le prime storiche foto scattate dai prototipi di Oskar Barnak, e decine di altre cose, ha culminato con la visita nella parte dedicata all’archivio degli apparecchi e dei registri storici nei quali sono segnati i numeri di serie e la produzione di tutte le macchine fatte in Germania (la fabbrica canadese, dove per un certo tempo Leica produsse per il mercato americano, non ha purtroppo conservato quei registri).
Ci sono scatole e scatole con macchine fotografiche donate da appassionati del marchio che, arrivati a un’età critica, hanno deciso di riportare a Leica quello che altrimenti sarebbe stato perduto nelle aste post trapasso. Oppure i modelli comprati da Leica stessa nelle aste per rifarsi una base di apparecchi da conservare ma anche sui quali poter lavorare.
Alcuni di questi apparecchi sono in mostra nel museo aziendale, costruito nel cuore del Leica Park che è stato creato a partire dal 2012 e che oggi è arrivato a maturità con la Galerie, gli impianti produttivi e di assistenza per le riparazione, un teatro di posa, l’archivio e gli uffici, oltre a un hotel in comproprietà che consente ai visitatori e ai dirigenti di altre aziende di essere comodi nonostante Wetzlar sia piccola e isolata.
Il museo di Leica
Il museo aziendale rappresenta da solo una esperienza che vale la pena fare: permette di scoprire non solo la storia di Leica ma anche quella della fotografia, di simulare ad esempio le fasi dello sviluppo e stampa di una fotografia con un ambiente digitale realistico basato su schermi touch che simulano le varie fasi. E poi ci sono i modelli rari o rarissimi, come la Leica LTM Reporter, con rullo maggiorato da 280 esposizioni, oppure i vecchissimi modelli in perfette condizioni, i numerosi accessori, e tutta la mitologia e le storie che fanno di Leica una azienda unica al mondo non solo nella storia della fotografia.
La nostra visita, della quale finiremo di rendere conto con un terzo articolo dopo quello introduttivo con la presentazione della M6 e questo, è proseguita anche in un’altra area nella quale abbiamo potuto vedere i lavori fatti per la personalizzazione delle macchine fotografiche (dall’incisione delle calotte alla sostituzione delle componenti con parti fatte su misura) sino al reparto di produzione delle lenti, il vetro cioè, degli obiettivi. Che Leica lavora a mano con una serie di quattro passaggi che richiedono ciascuno 45 minuti per lato del vetro. E in un obiettivo ci sono fino a otto elementi (singoli vetri) alcuni cementati ma altri comunque preparati e lavorati su entrambi i lati.
La ragione dell’artigiano
In una parte dell’archivio, però, c’era un altro aspetto interessante da vedere, al riguardo. Leica conserva i progetti originali delle sue macchine fotografiche e dei suoi obiettivi. Che l’azienda, ovviamente, in entrambi i casi realizza completamente al suo interno. Se fossimo in un altro mercato diremmo che Leica è una maison, nel senso che fa la manifattura completa dei suoi prodotti.
E il lavoro che l’azienda ha sempre, da quando nell’Ottocento ha cominciato a produrre ottiche per binocoli, cannocchiali e microscopi, è stata quello di progettare i vetri delle sue lenti per gli obiettivi. Cioè di fare i calcoli matematici, un lavoro riservato a fisici esperti di ottica o matematici esperti di ottica, in maniera tale che il vetro abbia la composizione di purezza giusta, la forma giusta, gli strati protettivi e tutte le altre caratteristiche che gli consentono di funzionare in maniera superba, come accade per gli obiettivi Leica, siano essi stati pensati per il mondo analogico (in cui la risolvenza degli obiettivi era minore) che per quello digitale, in cui gli obiettivi Leica risolvono le coppie di linee per millimetro con una precisione che permette di adoperare sensori e risoluzioni di formati molto elevati.
I progetti dimostrano come la storia che ha portato alla lavorazione del vetro in questa parte dell’Assia, favorita anche da un fiume per i lavaggi del vetro che ha la giusta densità di silicio disciolto nelle sue acque, sia una storia antica ma al tempo stesso tremendamente attuale. Il lavoro fatto nelle progettazioni realizzate su tavoli da disegno con tecnigrafi “antichi” ma ben noti (abbiamo visto uno Zukor in un angolo dell’archivio) e i progetti riportati in scala lavorando a mano sono l’anima stessa di una continuità non solo progettistica che si apprezza vedendo la compatibilità assoluta degli obiettivi LTM e del sistema M nelle macchine fotografiche di oggi.
Il nuovo non è solo nuovo
Leica ha presentato anche altre novità, come vedremo nel prossimo articolo, tra cui una versione nuova della sua SL2, e premiato i migliori fotografi con quel riconoscimento dedicato a Oskar Barnak che è nato nel 1979 ed ha avuto la sua prima sessione nel 1980 (il primo italiano a vincerlo è stato Gianni Berengo Gardin) ed è uno dei più prestigiosi premi della storia della fotografia.
La continuità, che spesso viene messa in discussione sottolineando solo l’aspetto “lifestyle” degli apparecchi Leica, il costo importante, l’ergonomia molto lontana dai computer con dei vetri davanti che vengono usati oggi per scattare immagini (ma bisognerebbe dire: per far scattare immagini a un processore). Leica porta avanti un discorso coerente che l’attuale proprietà, che ha preso il controllo dell’azienda all’inizio del XXI secolo, ha cercato e analizzato.
L’eredità dei marchi storici non passa per una trasformazione che ne snatura l’idea e i valori, ma per una ricerca intelligente di cosa voglia dire essere in questo caso Leica, quale sia l’attività principale (la fotografia) e cosa sia in ultima analisi la fotografia. Leica Camera, ma forse sarebbe meglio chiamarla ancora con il suo vecchio nome originale, cioè Leitz (da cui Leica deriva per crasi di LEItz con CAmera). Leitz-Leica è un’azienda che ha sviluppato dal niente una sua idea di fotografia e di formati, di tecniche di strumenti ma anche di filosofia e di pensiero su cosa sia una foto, come nasca, come giunga a maturazione e come sia riconoscibile e addirittura premiabile quando l’occhio del fotografo eccelle.
Questa coerenza e completezza di visione la pone in un campionato a se stante, nel quale non si va a competere semplicemente producendo nuove macchine fotografiche digitali che scimmiottano l’impostazione a telemetro della serie M di Leica. Invece, Leica è un altro mondo, un multiverso, una “Terra-Leitz” alterantiva nella quale si può viaggiare solo accettando una filosofia di vita fotografica diversa, coerente, completa. E a quel punto si comincia ad apprezzare il prodotto.
Muoversi tra gli scaffali dell’archivio, cercare un vecchio progetto di un obiettivo del 1940 che funziona su una macchina fotografica prodotta oggi, un vecchio libro su cui sono segnati i nomi di chi comprava le macchine fotografiche 90 anni fa, un frammento di negativo che ha fissato immagini semplici ma dal valore storico enorme, addirittura toccare e usare un obiettivo che non esiste per scattare una foto a pellicola con una macchina analogica in produzione da oggi vuol dire questo.
Cambiare piano, uscire dalla zona di comfort degli smartphone con sensori da 200 milioni di pixel e le fotocamere digitali autonome come un Roomba, ed entrare in un altro mondo dove serve tecnica, stile ed empatia per creare una fotografia che colga l’attimo decisivo, anche se leggermente sfocato.