Le criptovalute sono sotto un fuoco serrato di critica. Le valute peer to peer basate sulla tecnologia delle blockchain create da attivisti e tecnologi hanno infatti varie “debolezze”. Una è la struttura di tipo piramidale nella gestione del valore, che ha portato ad esempio alla crisi di milioni di investitori e risparmiatori soprattutto in America Latina. L’altra è l’impatto molto poco green sull’ambiente sia per quanto riguarda le transazione delle blockchain che per quanto riguarda l’attività di “mining”, l’estrazione di nuovi coin attraverso l’uso di algoritmi sulla blockchain (in pratica, la risoluzione di uno dei problemi matematici di una determinata classe scelti da chi ha creato la criptovaluta).
Adesso il riconoscimento del “problema green” delle criptovalute è diventato un caso politico: il senato dello stato di New York ha infatti approvato una legge che adesso deve essere firmata e promulgata dal governatore il cui fine è obbligare chi fa mining di bitcoin a utilizzare sorgenti di energia basate su fonti rinnovabili.
Al di là della singola iniziativa, questo è un importante segnale da parte della politica e delle amministrazioni del fatto che effettivamente le criptovalute sono un problema ambientale.
Questo fronte è molto rilevante perché, se da un lato si va diffondendo una critica sociale al senso economico delle criptovalute, cioè che si tratti di una “fregatura”, né più né meno uno schema di Ponzi, dall’altro l’idea stessa di trasferire gli asset finanziari e i meccanismi monetari internazionali su una tecnologia che è intrinsecamente inquinante pone un altro problema strutturale di difficile risoluzione.
Il bisogno di limiti
Come è possibile immaginare il futuro delle criptovalute se presentano queste due, profonde debolezze? Quali potrebbero essere gli scenari e i correttivi che possano consentire di risolvere questo problema?
Il tema è cruciale perché i Bitcoin, così come le altre successive criptovalute, sono nati con l’ambizione esplicita di creare un sistema monetario, una fonte di gestione e trasmissione del valore, alternativa e distruttiva rispetto a quelle tradizionali. Satoshi, lo pseudonimo dietro il quale si nasconde il creatore dei Bitcoin, nella documentazione con la quale ha presentato e lanciato questa che nel bene o nel male è una vera rivoluzione economica dal basso, ha sempre dichiarato di averlo fatto con l’obiettivo molto chiaro ed esplicito di sovvertire l’ordine costituito delle monete controllate dalle banche centrali degli Stati, per sostituirla con una “moneta dei popoli”.
Le politiche monetarie
Come si vede anche sulla carne viva di tutti i consumatori che in queste settimane, dopo la pandemia e a causa della guerra in Ucraina, stanno vedendo l’impennata dell’inflazione, le politiche monetarie sono una delle leve fondamentali per i governi nella gestione dell’economia degli Stati.
Una gestione che ovviamente fa parte del “cuore” delle prerogative della sovranità nazionale che i banchieri centrali e in generale i governi e gli altri organi costituzionali si guardano bene dal voler cedere a chicchessia. L’obiettivo degli Stati è quindi quello di mantenere il controllo assoluto della leva monetaria, al limite delegandolo solo (come è successo in Europa con l’Euro) a una autorità comunitaria, cioè la Banca Centrale Europea, che ha preso la prerogativa della Banca d’Italia di emettere carta-moneta.
La paura dei big
Negli ultimi anni, assieme all’emergere dei “sovversivi” come i bitcoin di Satoshi, c’è stato anche un altro affondo alla sovranità monetaria degli stati con la manovra messa in pista da Facebook che però è stata rintuzzata e pare essere rientrata.
Mark Zuckerberg aveva infatti deciso di creare una sua criptovaluta con l’obiettivo di usarla come strumento di pagamento sulle sue piattaforme: Instagram, Whatsapp e ovviamente Facebook (che all’epoca ancora non si chiamava Meta). Se la manovra fosse andata in porto Zuckerberg avrebbe avuto a disposizione non tanto un borsellino digitale dal quale gli utenti possono fare dei pagamenti usando le loro monete preferite o di residenza (euro piuttosto che dollari, per intendersi, come accade con le carte di credito oppure con Apple Pay, Google Pay o Satispay).
Invece, Zuckerberg avrebbe avuto una vera e propria sovranità con un suo prodotto finanziario svincolato da qualsiasi forma di controllo che non sia quello deciso ad hoc dagli stati, cioè dalle banche centrali dei vari Paesi. Perché ovviamente nessun individuo o azienda ha il potere di stampare una sua valuta, per quanto virtuale, con la quale gestire i pagamenti, il trasferimento e la accumulazione di ricchezza a livello planetario o anche solo nazionale o regionale.
Uno dopo l’altro sono arrivati gli stop a questa manovra e il piano di Zuckerberg si è a quanto pare arenato in maniera sostanzialmente definitiva.
La mossa di New York
La decisione di mettere sotto scrutinio la produzione dei bitcoin è un segnale quindi sia della crescente preoccupazione dell’impatto ambientale delle criptovalute e della loro produzione, come abbiamo visto sopra, che anche un modo per cominciare a porre ulteriori barriere e regolamentazioni al cuore stesso di una delle criptovalute più importanti.
La fa uno stato come quello di New York che è stato fin dall’inizio profondamente favorevole al minining delle criptovalute perché nella parte vicina ai grandi laghi (e alle castate del Niagara, per intendersi) la produzione di energia idroelettrica è molto economica, i prezzi sono bassi e quindi i “miner” hanno da tempo trovato un rifugio. Nonostante alcuni politici dello Stato avessero espresso perplessità, temendo che ci potessero essere delle ripercussioni economiche sull’industria locale, il senato ha deciso lo stesso di andare avanti su iniziativa del comitato senatoriale per l’energia e le telecomunicazioni (dopo che il comitato senatoriale per la conservazione ambientale l’aveva inizialmente rigettato).
È una mossa che nel medio periodo potrebbe pagare moltissimo perché rende ancora più responsabili e quindi legalmente persegubili in caso di violazioni delle entità che per loro natura vorrebbero essere il meno regolamentate possibili. E stringe in una morsa per adesso morbida e limitata a un solo stato americano ma potenzialmente di rilevanza planetaria l’intera filiera della produzione dei bitcoin e, per estensione, di tutte le criptovalute.