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L’importanza dell’App Store e perché non dovremmo dimenticarcene

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Quanto è importante l’App Store? Parliamo specificamente di quello con le lettere maiuscole, non degli app store in generale (come quello di Google ma anche come quelli indipendenti presenti su Android e su Windows o, in più piccola misura, su Mac) perché è giusto sottolineare alcuni aspetti.

Le app oggi sono una forza della natura: l’84% delle persone ha in tasca o nella borsa uno smartphone, gli utenti Apple che vedono e scaricano settimanalmente delle app sono 600 milioni e l’App Store di Apple è molto più ricco dal punto di vista di quanti utenti pagano per le app di terze parti (cioè non fatte da Apple) rispetto all’equivalente su Android, sia come valore assoluto che come prezzo medio.

Polemiche e opportunità

L’importanza dell’App Store, che negli ultimi due-tre anni è stato al centro di polemiche relative soprattutto alle barriere che mette nei confronti degli sviluppatori, è in realtà enorme. Si dice spesso che sia un luogo “democratico” rispetto ad altre forme di distribuzione del software, perché consente a tutti di agire sullo stesso piano. Basta avere una buona idea e saper scrivere il codice, dice un dirigente di Apple che abbiamo sentito nei giorni scorsi, e la app che si realizza ha le stesse possibilità di essere vista e distribuita di tutte le altre. Siano esse fatte da colossi del software oppure da piccole startup create da un singolo programmatore.

Anche più di quello che la stessa Apple produce per il suo App Store. Le app realizzate da Apple, secondo uno studio indipendente fatto da Analysis Group su richiesta di Apple il successo dell’App Store dipende non solo dalla scala e dimensione dell’App Store, ma anche dal fatto che le app dell’azienda in realtà non tolgono ossigeno a quelle degli sviluppatori.

Nel senso che la suite iWork, fatta da Pages, Numbers e Keynote non ha un ruolo preponderante rispetto ai produttori di app analoghe in competizione (e anzi, Apple stessa promuove le app di terzi anche quando ha un suo prodotto in alternativa) e la stessa cosa si dica ad esempio per GarageBand e altre app del genere.

Sviluppare app

Certo, serve l’idea. Se da un lato è vero, come dice Analysis Group, che l’App Store ha continuato a crescere nel corso degli anni e che la comunità degli sviluppatori si è sistematicamente espansa, con un dinamismo e una vitalità più uniche che rare, è anche vero che per partecipare a questo movimento bisogna avere due competenze: progettuali (cioè l’idea) e operative (saper scrivere codice).

Apple, oltre a investire molto nella formazione dei giovani programmatori (sia nelle scuole che con le Academy e altre attività analoghe inclusi software per imparare a programmare su Mac e iPad) mette a disposizione di tutti anche librerie, strumenti di sviluppo (Xcode) e tecnologie (gestione di tecnologie come l’intelligenza artificiale o la realtà aumentata).

Questi strumenti messi a disposizione degli sviluppatori da parte di Apple servono perché alimentano lo store e consentono ai prodotti di Apple di essere popolari per la bontà del software che si può trovare in esclusiva oppure in modalità generalmente migliore rispetto alle versioni disponibi

Apple ha predisposto migliorie nella sandbox di testing per gli sviluppatori
Xcode è al centro di tutti i processi di sviluppo per le piattaforme Apple

li su altre piattaforme.

 

Qualità, privacy e sicurezza

Apple certamente tiene tutto “molto chiuso” perché fondamentalmente vuole che la sua piattaforma sia scelta sulla base di una serie di valori e punti di forza: innovatività e qualità del software, rispetto della privacy degli utenti e sicurezza digitale. I casi non solo recenti di disastri con la presenza di malware dentro le app distribuite al di fuori degli store (o alle volte anche negli stessi store meno controllati di altri fornitori) sono un chiaro esempio che questo tipo di approccio produce valore per la clientela e gli utenti, oltre che per gli sviluppatori terze parti e Apple stessa.

Apple, dal canto suo, compete nel suo stesso store con 60 app a fronte di un “muro” di 1.8 milioni di app sviluppate da terze parti. E l’ampiezza e varietà di queste app è enorme: seguendo le classifiche dell’App store non c’è categoria in cui Apple vinca: Apple Music? Vince Spotify. Apple Tv+? Vince Netflix. Apple Mappe? Google Maps e Waze. Messaggi? Whatsapp e Messenger di Facebook. Libri di Apple? Kindle e Wattpad (Naver)

App Economy

La parola chiave però è App Economy. Con questo termine non si fa riferimento solo allo store di Apple, bensì alla trasformazione che questo ha innescato e che spesso dimentichiamo.

Infatti, l’app store è un concetto che non è stato inventato da Apple (ne esistevano di altri, rudimentali ad esempio per Symbian di Nokia) ma che ha portato a compimento. Ha stabilito le regole di un gioco che si è rivelato straordinariamente di successo. Al di là dell’apertura o chiusura dei singoli store, della possibilità di fare side-loading o no, di usarne uno solo o più di uno in parallelo, gli app store hanno creato una app economy perché hanno rivoluzionato il modo con il quale intendiamo il software applicativo.

App e Cloud

Le app degli store hanno il vantaggio di essere gestite per tutto il loro ciclo di vita in maniera trasparente. Vengono scaricate, aggiornate, temporaneamente rimosse se non usate (ma senza perdere i dati) per liberare spazio, bloccate se incompatibili, e comunque testate e verificate per essere sicuri che siano proprio quello che dicono di essere, senza virus o altri malware.

L’altro modello emerso in questi ultimi anni è quello spinto moltissimo da Google che si basa sulle app nel cloud e sulle progressive web app (PWA), che poi sono la versioni “webbizzate” del software, se perdonate il termine. Sono app che utilizzano le moderne funzionalità Web per offrire agli utenti un’esperienza molto simile a quella di un’app nativa. Ma, a differenza di una app normale, le PWA sono un ibrido tra normali pagine web e app vere e proprie, che arricchiscono progressivamente l’esperienza d’uso con funzionalità nuove.

I vantaggi stanno sostanzialmente nell’essere delle app che però si possono scaricare come fossero mini siti web, e funzionano anche offline.

Le PWA sono però una soluzione con dei limiti: sono supportate solo da versioni recenti dei sistemi operativi (iOS 11.3), usano molto la batteria dei dispositivi perché non sono ottimizzate, non tutte le funzionalità sono attive su tutti i sistemi operativi, le funzionalità offline sono limitate e i possibili usi ristretti rispetto a quelli di una app normale. Infine, non c’è presenza su App Store e quindi non c’è controllo e visibilità.

Google cerca da tempo di creare un ecosistema che funzioni al di fuori del computer, cioè tramite software presente nel cloud (ChromeOS) ma una delle aziende che più investe in questo tipo di tecnologia è Facebook, che sulla sua piattaforma consente lo sviluppo do componenti che sono sostanzialmente delle mini-app.

Esempi di PWA sono la versione web di Pinterest, Instagram, Google Maps, Tinder, Twitter Lite, YouPorn. La scelta di realizzare delle PWA, in alcuni casi, oltre che per la velocità di esecuzione e la possibilità di aggiornare più di frequente, è sostanzialmente quella di bypassare il limite degli app store di Apple e Google per tutte quelle app che non verrebbero approvate (gli app store hanno dei limiti legati all’accesso dei dispositivi da parte dei minori).

Il futuro sono ancora le app?

La domanda che ci si potrebbe porre è se, con l’evoluzione della tecnologia ma anche delle normative, il futuro sarà ancora quello delle app, e se sia auspicabile e giusto che sia così.

Le normative stanno cambiando un po’ in tutto il mondo e l’approccio “chiuso” di Apple viene costantemente messo in discussione con cause, attività antitrust e altre manifestazioni critiche da parte di utenti e sviluppatori. Dall’altro lato, però, lo store di Apple è un gigantesco motore di innovazione e ricchezza.

Sullo store transitano miliardi di dollari che gli sviluppatori non raggiungerebbero in ambienti diversi e su piattaforme aperte (la controprova sta in Android, che non si avvicina neanche lontanamente ai totali di Apple nonostante sia molto più diffuso), c’è più stimolo ad essere creativi e competitivi e inoltre si seguono obbligatoriamente i principi stabiliti da Apple per il rispetto della sicurezza e della privacy degli utenti, e la trasparenza.

Una scelta personale

La soluzione, tra difensori di uno o di un altro approccio, probabilmente non esiste semplicemente perché non esiste uno store “giusto” e uno store “sbagliato”. Esiste, dal punto di vista di noi utenti, la possibilità di scegliere e di farlo potendo avere delle alternative chiare. Una piattaforma fa una cosa, un’altra ne fa un’altra. Le app alla fine si trovano sia di qua che di là ed evidentemente non è livellando uno store (quello di Apple) sulle politiche di un altro (quello di Google per Android) che si ottiene una presunta uguaglianza.

Anzi, probabilmente si fa proprio l’unica cosa sbagliata che non andrebbe fatta: si riduce la capacità di scelta di noi consumatori dando per acquisito che ogni piattaforma deve essere uguale, quando è proprio la scelta dell’una o dell’altra sulla base di differenze organizzative e funzionali il tipo di libertà che gli utenti devono poter esercitare.


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