Alcune settimane fa, o forse erano mesi, durante la pandemia è difficile dirlo perché le ore si mescolano in un’unica zuppa di letterine gialle e i giorni scolorano come pagine di un passaporto finito in lavatrice dal quale sgocciolino via i timbri e i relativi viaggi, una ragazza ha scritto una cosa su un social.
Forse era Twitter, forse era Instagram, forse era chissà cos’altro, fattostà che la ragazza (o forse era un ragazzo o magari una donna anziana) ha scritto che per non perdere il senno durante il lockdown e doverlo poi andare a cercare sulla Luna (ricordate il Paperin Furioso? Ecco, simile), si è messa a fare un grande puzzle. Quei normali, grandi, bei puzzle di una volta, fatti di qualche migliaio di piccole tesserine tutte ritagliate con millimetrica precisione da stampi pregiatissimi su cartone di qualità. Immagini boschive, naturali, quasi pittoriche, con quello stile impersonale che prelude addirittura i quadri in vendita da Ikea e ridefinisce immaginari plastificati mostrando che c’è un’altra dimensione, ancora più plastica e ancora più plastificata, alla quale tendere e anelare. Grandi, gigantesche camomille fatte di tante piccole, colorate (ma da un lato solo) tesserine di un puzzle che si costruisce con passione, ossessione e dedizione. Il portale per entrare nello spettro ossessivo-compulsivo.
Dopotutto c’è chi trova la sua calma interiore programmando in javascript, c’è chi costruisce un dylandogghiano galeone, c’è chi affronta con minuziose pulizie dei bordi e delle cornici di tutte le suppellettili presenti in cucina qualsiasi tensione e seda qualsiasi nevrosi. Ubi maior minor cessat: trasformare la grande paura in un diorama, in un piccolo modellino di oggetti inanimati, bambolina vudu al contrario, e poi impacchettarla e buttarla via, facendo altro. Facendo ossessivamente, magnificamente, prepotentemente altro.
Obiettivo relax
Chi scrive ha trovato la sua attività performativa e ripetitiva anti-stress da lockdown per caso, navigando su Instagram probabilmente. Chissà da dove esce, comunque quell’immagine ha aperto un mondo: è l’immagine di un albero bonsai, ma fatto di Lego.
Su Internet si può comprare tutto e quindi anche l’albero bonsai, dopo qualche giorno di training per autoconvincersi dell’assoluta necessità di acquistarlo, è stato beccato su Amazon quando era in sconto (normalmente viene poco più di 43 euro, quel giorno era a 39). Tempo le solite 36 ore e la scatola è arrivata a casa. Altri due giorni di attesa e poi con il figlio ottenne e la figlia cinquenne (che a dire il vero si è stancata dopo poco) si è proceduto al montaggio.
I bambini si appassionano ancora di più degli adulti, è quasi un cliché dire che prendono il gioco molto sul serio; e soprattutto grazie a dio quest’ottenne ci vede molto bene e ha le manine ancora piccoline: il momento ideale nella vita per dare una mano all’anziano cronista e genitore, i cui polpastrelli sono oramai desensibilizzati da qualche milione di parole tamburellate sulle più improbabili tastiere, nel corso dei lunghi anni di onorata professione. Risultato: le sei buste d lego sono state aperte una dopo l’altra e gli 878 pezzi montati con determinazione.
Recensire un kit in Lego per bonsai
Il cronista nel corso degli anni, più di quanti non voglia ricordare, ha raccontato molte storie e recensito molti oggetti. Mai prima d’ora però un kit della Lego e ancora meno un albero bonsai. (Casomai, ne ha ammazzati due di bonsai, essendo dotato di quello che viene tecnicamente definito “pollice nero”, al lettore eventuali considerazioni sul significato ortocoltorio della locuzione). Ma si sa, finché c’è vita c’è sempre una prima volta per tutto, e fare cose nuove mantiene giovani o quantomeno infantili (se si parla di giocattoli). E quindi, dopo un Grand Prix di autoassoluzioni, è arrivato il momento di immergersi nel gioco. Pardon, nel lavoro. O nella naturoterapia in pvc. Insomma, fate voi.
Il punto però è che questo modello di bonsai della Lego non è un giocattolo. Cioè, l’azienda lo posiziona come prodotto parte della Botanical Collection (l’altro prodotto che si è visto finora è un mazzo di fiori, che chi scrive non trova allettante). La scatola ha proporzioni generose, contiene al suo interno un manuale di istruzioni Lego classico ma contrastato in modo non ottimale, che rende ogni tanto difficoltoso capire cosa bisogna fare, e le sei buste con i pezzi da montare. Sono 878 pezzi, ma in realtà il prodotto è più facile da mettere assieme di quanto non sembri. Più di cento pezzetti “da uno” tondi vanno in “ghiaia” per il vaso (bonsai vuol dire letteralmente “vaso largo e piatto” ed è un’arte che i giapponesi hanno preso dalla Cina, dove peraltro è ancora praticata ma in modo parzialmente diverso). Servono cioè per creare quell’effetto ghiaino che si intravede nel bonsai, ma con discrezione, che fa tutta la differenza.
Altri pezzi vanno poi nella costruzione del vaso (facile) e dello stand marrone (ancora più facile). Scelte alle volte un po’ discutibili o comunque barocche (la sindrome dello Steve Jobs di Lego: quello che vuole fare bene anche la parte che non si vede del modello come dell’archetipo armadio jobsiano). Tuttavia, quello che è più complicato è il bonsai stesso. Il quale ha due chiome a disposizione: si può decorare l’albero con le foglie verdi o con fiori di ciliegio rosa, i cui boccioli sono in realtà piccolissime rane. Sì, perché in questa nuova epoca di design della Lego, in cui l’azienda si appoggia a creativi esterni per fare pezzi unici sempre più complessi e particolareggiati, l’azienda si fa vanto di introdurre nuovi mattoncini molto ma molto raramente. Con parsimonia. E quando può, piuttosto ricicla altri mattoncini pensati per scopi completamente diversi (le rane, ad esempio). C’è tutto un mondo dietro, e gente che ci studia e ci impazzisce. Appassionati decisamente nerd.
La costruzione del modello, nonostante gli 878 pezzi e l’avvertenza 18+ per l’età, è stata portata a termine da un bimbo di 8 anni con la supervisione del padre (senza occhiali e quindi molto parziale: più di metodo che non operativa) e ha portato alla realizzazione di un modello finito misura 18 cm di altezza, 21 cm di lunghezza e 20 cm di larghezza. La complessità la riteniamo inferiore alla stima della scatola, le idee progettuali invece interessanti: è il tronco dell’albero ad essere il più problematico, ad avviso di chi scrive, mentre il resto è un piccolo capolavoro di bilanciamento e saggezza costruttiva alternato a un po’ di spocchia e voglia di dimostrare quanto siamo bravi noi della Lego.
A chi è rivolto
Questo bonsai è simbolico, cioè lo vogliamo scegliere come simbolo di una ulteriore trasformazione di Lego che è da decenni diventata la produttrice di modelli sempre più complessi e costosi, trasformando un gioco quasi steineriano in una forma di moderno modellismo alternativo, senza colla e senza lima o decalcomanie e vernici, che permette di adattare l’immaginario pop di Guerre Stellari e di altri mondi alternativi ai mattoncini colorati. Lego ha poi immerso le mani giù giù sino al gomito nei franchising come Batman, Lego Movie, Star Wars, Harry Potter, Principesse Disney e varie altre idee che hanno portato a trasformare il modellismo avanzato dei mattoncini in videogiochi e poi in film (digitali). C’è tutto un ecosistema da decenni, una rete ampissima, ma la svolta è andare verso gli adulti in maniera esplicita.
Lego ci ha già provato con la sua collezione di architetture in miniatura, ma ha colto solo fino a un certo punto lo spirito postmoderno. Un museo Guggenheim o una Torre Eiffel, per quanto gradevoli, si avvicinano al gusto kitsch e all’estetica del midcult più che alla cultura pop vera e ruspante che serve per vendere oggi. Non perché siano prodotti più o meno raffinati, ma perché sono un passo più vicini al Duomo di Milano in miniatura, quello con o senza la bolla con dentro l’acqua e la neve artificiale. Guarda mamma che ti penso anche da Milano. L’estetica neogozzaniana del souvenir d’Italie. Invece, quei prodotti mancano di appeal per il pubblico hipster e per quello aspirazionale, per il pubblico dall’immaginario gentrificato dal mondo degli youtuber e che vuole mettere la replica della console Game & Watch accanto alla tazza Atari e al maximonitor curvo da 35 pollici con luci al neon a temperatura cangiante pilotabili con Alexa o con HomeKit.
Questo pubblico il bonsai lo coglie perfettamente. Introducendo un prodotto il cui immaginario appartiene genuinamente al mainstream. Questo pubblico siamo noi, siete voi. E il bonsai è perfetto perché ha un suo bel perché. Infatti, il bonsai è “la” pianta per definizione: difficile, bizzosa, costosa, ma anche decisamente zen, che solo guardarla già rende tutti più mindfulness e yoga dentro. Guardi il bonsai e senti la cervicale che si scioglie mentre immagini uccellini grandi come zanzare che svolazzano sibilando.
L’estetica del verosimile
Purtroppo, la stessa piantina “vera” e soprattutto precariamente viva, deposta in un vaso di terracotta sulla scrivania del lavoratore digitale casuale e di concetto, è come una creatura condannata a morte inevitabile. Investita dalle radiazioni che si contano a suon di centinaia di lumen emessi dallo schermo, dai gigaherz sparati per induzione fuori dai multicore direttamente dentro le scocche di alluminio su su fino al vaso di plastica e al terriccio bagnato dove le barbe incolte allignano, dalle folate di aria malsana pompate dalle ventole di raffreddamento, mentre 5G e WiFi 6 fanno il resto e inducono terrore, disgusto e scompiglio elettromagnetico.
A questo punto, se fosse un fumetto della Marvel la piccola e delicata piantina muterebbe e diventerebbe un ninja della notte capace di far fuori tutta la famiglia per vendetta, prima di arrampicarsi sul davanzale della finestra, flettere i muscoli vegetali e saltare nel vuoto. Invece, nella realtà la piantina semplicemente muore perché ha poca luce, nessuno le dà da bere, il terriccio è marcio e l’aria troppo secca. O forse non le piace dove naviga il cronista o può vivere solo sopra un Dell, il Mac mini la ferisce mortalmente nell’orgoglio, chi può dirlo.
Ecco, invece la piantina di Lego compie il miracolo: è un progetto da realizzare e come tale merita il rispetto che si deve a tutti i maker (soprattutto se fatto con la suggestiva squadra padre-figlio che, come le vacanze su Instagram, quelle degli altri sembrano sempre perfette). Il bonsai di Lego on è una piantina di basilico comprata al Carrefour né una di plastica presa all’Ikea. C’è uno sforzo, un lavoro di creatività (seppure per interposta persona) e quello spirito hacker che trasforma in un attimo un sabato pomeriggio luminoso in una versione meneghina del sotterraneo del Mit di Boston dove il plastico del treno veniva collegato a un mainframe per gestire i semafori e gli scambi automaticamente, nel pieno rispetto della tabella di marcia per il Northeast Corridor. La storia delle origini degli hacker.
Infatti, la piantina bonsai di Lego convince e quindi vince: fa la sua bella figura appoggiata sul Mac mini M1 (che a sua volta si erge appoggiato sul vecchio Mac Intel del 2011, oramai cotto), dà l’idea di non morire (anzi, probabilmente sopravviverà al proprietario e alle successive due o tre generazioni, se l’olocausto nucleare o il riscaldamento globale-totale non la squaglieranno prima) e di necessitare solo di un “puf” fatto un po’ da lontano con la bocca per tirar via la polvere, e ciao.
Cosa sta succedendo
Il giudizio di questo cronista e maker in erba (pun intended) sul bonsai di Lego è ottimo: l’azienda ha fatto un lavoro notevole, il kit è all’altezza di altre produzioni già realizzate in famiglia (a Natale una scena con Privet Drive da Harry Potter e un grosso caccia Ala-X dei Ribelli di Guerre Stellari) e non c’è niente da dire. Il modello sembra anche abbastanza solido, a patto di non rovesciare il vaso perché pieno di pezzetti tondi da uno che poi diventerebbe un macello recuperare. La doppia chioma aiuta anche la longevità della parte ludico-costruttiva (si può preparare e poi sostituire a seconda della stagione: adesso andrebbero i ciliegi in fiore, ancora per un po’).
Ma la cosa interessante è quello che ci sta dietro. Lego sta attraversando un immaginario dopo l’altro e sta però lavorando alacremente per ridefinire la sua immagine e il suo potenziale evocativo. Questo lavoro per la realizzazione di un oggetto che non ha niente a che spartire con alcuna traiettoria dell’infanzia è sublime per la precisione con la quale esplora un’area nuova di gusto. Mentre su YouTube si moltiplicano video di recensioni di Lego e alcuni accumulatori seriali e speculatori digitali mostrano collezioni mostruose di centinaia di pezzi di Lego (che valgono un patrimonio e infatti sono la base per essere rivendute, generando ricchezza dal poco o niente), si ha la frizzante e corroborante sensazione che Lego abbia azzeccato il tiro. Un colpo alla cieca diretto tra gli occhi della bestia che correva nella prateria notturna.
Per il finale del 2021 l’azienda ha messo assieme un catalogo enorme, che supera anche quello già notevolissimo della prima metà dell’anno. A pandemia in corso aprirà altri 120 negozi, sta investendo su nuovi franchising. L’azienda danese guadagna di più, ha più di 612 negozi monomarca nel mondo, 80 dei quali in Cina. Produce software per progettare i lego e comprare poi online i pezzi per realizzarli, assume creativi per generare nuove idee e nuovi prodotti da inscatolare e vendere, attira sempre più adulti che vedono nel lego un modo ragionevole e accettabile per soddisfare la loro voglia di giocare repressa e giustificabile solo sino a un certo punto. Insomma, va alla grande. o almeno, così sembrava. Tutto come previsto? Neanche per idea.
Il miracolo del lockdown
E poi, infatti, c’è il jolly. La variabile impazzita, imprevista, imprevedibile. Il cigno nero (che Lego dovrebbe mettere subito in scatola e vendere, sei buste e 600 pezzi, poi ci giochi anche nella vasca da bagno). Perché imprevedibile? Perché Lego, che ha utilizzato fior di consulenti e teste pensanti per ricostruire la sua immagine e la sua strategia che era stata disintegrata prima dalla concorrenza di giochi simili e più economici, poi dai falsi cinesi, poi dai videogiochi (mercato riconquistato più di dieci anni fa attaccandolo frontalmente) e poi da millemila altre possibili distrazioni e universi alternativi di intrattenimento, adesso ha finalmente incontrato la pandemia e il lockdown. Ed è stata tutta un’altra storia.
Diceva il feldmaresciallo dell’esercito prussiano Helmuth von Moltke che “nessun piano di battaglia sopravvive al contatto con il nemico”. Per la danese Lego il contatto con la realtà è stata la pandemia e il lockdown. E l’azienda ha scoperto di essere stata troppo poco ambiziosa: avrebbe potuto immaginare di più, osare di più, preparare di più. Perché durante il lockdown, quando la possibilità di fare acquisti via internet è diventata una via di fuga e le paure dovevano essere cristallizzate, oggettivate e manipolate direttamente, con le nostre dita e i nostri pollici opponibili anziché continuare ad essere angosce immateriali, sentori di fantasmi che abitano nel nostro inconscio, era il momento di giocare la briscola e il carico. E tirare fuori tutto, ma proprio tutto quello che c’era in magazzino. A costo di disegnare le istruzioni a mano (tanto, peggio di come vengono stampate oggi, difficilmente).
Avanti così
Chi scrive ha ritrovato nel bonsai di Lego un appiglio per quell’equilibrio precario che è come lo sballottamento sull’autobus: improvviso, breve, non troppo forte ma intenso e insidioso. Se non governato o comunque se preso alla sprovvista, quello scossone può anche far perdere l’equilibrio e generare danni seri e profondi. Il Lego è stata un’ottima soluzione. Un ammortizzatore psicologico senza eguali. Non solo perché ha impegnato le mani e la testa per qualche ora in un’attività antica e potente, terapeutica, come le costruzioni. Ma anche perché quella sensazione di benessere rimane inscindibilmente unita alla struttura del piccolo bonsai, che ne è diventato una memoria costante.
Sul tavolo, nel campo visivo delle pupille quotidianamente fisse sul vecchio Apple Cinema Display che dal 2008 vede passare milioni e milioni di caratteri (spazi inclusi) in un unico fiume infinito di articoli, come il rotolo nella macchina per scrivere da cui Jack Kerouac ha tratto il suo On The Road, adesso c’è anche il piccolo bonsai di Lego. Piccolo e buono, che ti guarda, verde e marrone, senza ne ali né timone. Ma che ti fa volare lontano lontano e al tempo stesso ti fa sorridere, dimenticandoci per un attimo il grande senso di vuoto che al centro di tutti noi, con o senza la pandemia e il lockdown. Quel vuoto che non può essere riempito e che può essere solo dimenticato: la nostra più grande illusione che la naturoterapia in pvc made in Danimarca rafforza e quasi trasforma in realtà.