Abbiamo conosciuto il Prof. Franco Tommasi tanti anni fa quando volle raccontarci la sua esperienza didattica originale presso l’università del Salento e il successo ottenuto nell’imporre all’università la creazione di un laboratorio basato su una piattoforma che sembrava a tutti perdente.
La nostra ultima intervista risale al decimo anniversario di Mac OS X… siamo a tornati a parlarne a dieci anni di distanza ora che macOS ha ventanni compiuti e sono arrivati oltre iOS anche, iPadOS, TVOS, WatchOS e la posizione di Apple è fortamente mutata. Tommasi ci racconta non solo l’esperienza di questi 10 anni ma anche come è mutata la percezione di macOS, come funziona la didattica oggi nella sua università e di come pensa di gestirla nel futuro più immediato.
Prof. Tommasi siamo qui di nuovo a dieci anni di distanza a parlare del sistema operativo dei Mac ma in realtà dovremmo parlare di una galassia di sistemi Operativi che Apple ha generato in questi anni per sfruttare al massimo le caratteristiche dei suoi dispositivi. Cosa hanno in comune?
Beh, dal punto di vista tecnico la risposta è semplice: al cuore di tutti i sistemi Apple attuali c’è sempre UNIX. E questo ha dello sbalorditivo. Si tratta di un sistema nato mezzo secolo fa, insieme a Internet, con cui è cresciuto per decenni in una simbiosi inestricabile (a proposito delle “nuove tecnologie” di cui si sente sempre blaterare). I mille problemi legali, il proliferare delle versioni incompatibili, le cospicue risorse hardware necessarie per farlo girare e il successo di Windows, lo avevano ridotto alla quasi sparizione.
Poi, quasi per magia, negli ultimi 12 anni passa dal 2% dell’utenza globale di sistemi operativi (considerando anche quelli di smartphone e tablet) a quasi il 70%!
Ovviamente di magia non si tratta. Alla base ci sono vari fattori: la soluzione dei problemi legali, un processo di standardizzazione finalmente efficace, il contributo generoso di una vivace e numerosa comunità di sviluppatori di software libero e open source, la madornale cantonata presa da Microsoft nel misurarsi con l’immenso fenomeno della mobilità, i progressi per lungo tempo esponenziali delle capacità di processori e memorie. Stiamo, naturalmente, parlando del mondo dell’utenza generica e non di quello molto più ristretto degli informatici e dei sistemi per la fornitura dei servizi, dal momento che, è giusto ricordarlo, UNIX non ha mai cessato di essere fondamentale in tutte le sale server.
L’evoluzione di iPadOS/iOS e quella di macOS rappresentano sicuramente una occasione importante per gli sviluppatori per far crescere le proprie app nate sul mobile anche sul desktop quali sono le difficoltà e i vantaggi di questa convergenza?
A parte la mancanza di certi sottosistemi (GPS, giroscopio ecc…) sui computer con macOS nativo, non c’era nulla che in linea di principio impedisse, con vari metodi, l’esecuzione delle app per dispositivi mobili su un notebook o un desktop Apple (e del resto la cosa era già possibile per gli sviluppatori ed è da tempo una realtà per Android su piattaforme non Apple).
Certo, occorreva uno sforzo aggiuntivo per rendere tale percorso possibile all’utente generico. Diciamo che l’uniformità dei processori tra i due tipi di piattaforma ha reso tutto più naturale (e c’è da scommettere che alcune dotazioni hardware caratteristiche dei dispositivi mobili non tarderanno ad arrivare sui notebook).
L’impatto di questo autentico diluvio di applicazioni mi fa pensare a quando circa 5.5 milioni di anni fa crollò la barriera che chiudeva lo stretto di Gibilterra e l’oceano invase quello che oggi è il Mediterraneo. Milioni di app che hanno improvvisamente la potenzialità di arrivare sul Mac!
Pensate a quando nel 2007 fu presentato iPhone e non era concessa la possibilità di sviluppare delle app per esso. Poteva sembrare un’opportunità ovvia ma, per vari motivi, a Jobs non sembrò una buona idea all’inizio. Quando l’anno dopo il veto fu rimosso, si assistette a un’esplosione di creatività che continua ancora oggi e, qualunque cosa se ne pensi, sta cambiando il mondo, non credo sia esagerato dirlo. E se, com’è sembrato, neanche un visionario come Jobs ebbe subito la percezione giusta dell’importanza di quella trasformazione, si può comprendere quanto sia difficile prevedere quali possano essere gli sviluppi di trasformazioni di portata così colossale.
Di recente ha pubblicato un libro “Alla scoperta di UNIX – Esplorare GNU/Linux e macOS con la linea di comando”: esisterà mai una possibiità di usare la CLI sui sistemi operativi diversi da macOS?
Evidentemente parliamo dei dispositivi mobili di Apple (visto che su quelli di altri produttori questa possibilità esiste da sempre). Non ho la sfera di cristallo ma, a meno di cambiamenti epocali nelle politiche di Apple, dubito che ciò sarà permesso.
Ovviamente non perché ne manchi la possibilità dal punto di vista tecnico, visto che sempre di UNIX si tratta (tanto è vero che il risultato è ottenibile col famoso jailbreaking), ma soltanto perché fin dal primo giorno Apple ha voluto conservare il pieno controllo della piattaforma (che svanirebbe in un attimo se la CLI fosse disponibile).
Giusto? Sbagliato? Le opinioni in proposito sono spesso in acceso contrasto tra loro ma, a parte tutto, di sicuro questo rigido controllo ha prodotto molti effetti positivi. Certamente per le trimestrali di Apple, ma a ben guardare anche per gli utenti: livelli di sicurezza superiori alla media, robusta protezione della privacy, maggiore attrattività per gli sviluppatori che hanno visto meglio garantiti i loro guadagni. Insomma è una politica che finora ha pagato, i fatti lo dimostrano chiaramente.
Non dimentichiamo poi che il dispositivo mobile va nelle mani di uno sterminato pubblico generico, che della CLI non saprebbe che fare neanche se gli fosse spiegato cos’è. Diciamo la verità, la CLI ti trasforma in qualcosa di molto simile a un programmatore, e ciò ti colloca immediatamente in una minoranza molto ristretta. Naturalmente quanto appena detto non ha nulla a che fare con l’uso di un dispositivo mobile per controllare tramite la CLI delle macchine remote, ciò in cui l’interfaccia a linea di comando eccelle. Le app per far ciò sono apparse molto presto in iOS e credo di non essere il solo informatico a ricordare il diletto della prima sessione ssh da un cellulare.
Lo stretto rapporto tra macOS e i processori Apple Silicon quali vantaggi può portare all’utente? Non c’e’ il pericolo di un universo sempre più chiuso ora che si assiste ad un progressivo abbandono delle CPU Intel?
La prima cosa a venire in mente è naturalmente la massima di Alan Kay che Steve Jobs trasformò in un motto di Apple: “People who are really serious about software should make their own hardware”. Un motto che ha visto il Macintosh protagonista di grandi innovazioni e grandi isolamenti.
Diciamo però che oggi la situazione è molto diversa da quelle del passato, quando alcune scelte autarchiche potevano creare (e di fatto crearono) seri problemi alla salute delle piattaforme Apple. Innanzitutto, dai primi passi mossi dall’Apple Silicon, si può osservare un tale vantaggio in termini di prestazioni da far ipotizzare come molto più probabili problemi per le piattaforme concorrenti, almeno nel breve e medio termine. Poi Apple, a differenza di altri periodi nei quali quelle scelte potevano apparire velleitarie, ha oggi una forza economica e un posizionamento sul mercato tali da far pensare, nel caso peggiore, che credo sia piuttosto lontano, più a uno scisma che un isolamento.
Quali sono le piu grandi differenze tra il mac OS nato 20 anni fa, quello di cui abbiamo parlato 10 anni fa e quello di oggi?
Bella domanda. Mi fa tornare col pensiero a 20 anni fa quando riuscii allestire un’aula informatica con gli iMac di allora, quelli colorati e trasparenti, ancora ce li ho negli occhi. L’ordinario dell’epoca mi disse “ma perché non lasci perdere questi mac?”. Gli studenti (e i colleghi) mi guardavano stralunati. “Questo è matto”, avrà pensato sicuramente qualcuno, visto che all’epoca solo una piccola minoranza di studenti conosceva il Mac.
Ma io, che venivo da anni di esperienza con HP-UX e Solaris e con le loro asprezze, ero entusiasta della possibilità di avvicinare gli studenti a UNIX (che ha avuto sempre un posto d’onore in tutti i corsi di Sistemi Operativi) per una via decisamente più semplice da percorrere. Certo, lo UNIX del Mac era all’epoca ancora incompleto (era il “Cheetah”, la versione 10.0), non aveva la maturità richiesta da un uso professionale. Ma per la didattica andava benissimo. Dopo le prime lezioni i ragazzi cambiavano atteggiamento, cominciavano ad appassionarsi e, devo ammetterlo, era una soddisfazione osservare il mutamento.
Con Leopard giunsero poi la standardizzazione e il marchio UNIX® e le cose cominciarono a prendere un’altra piega. Da Snow Leopard in poi, gestivamo tutte le home di centinaia di studenti da un Mac mini Intel con Mac OS X Server che ne permetteva il mounting su 40 macchine via rete! Che peccato che Apple non abbia più sostenuto adeguatamente questa linea di sviluppo… ora si sente la mancanza di strumenti altrettanto all’avanguardia per la gestione di aule informatiche.
Da qualche anno siamo per esempio dovuti passare a fare accedere tutti gli studenti ad un account Guest, con tutte le notevoli limitazioni che ciò comporta.
E si giunge al 2011, quando ormai erano in tanti gli studenti a conoscere il Mac e anche i miei colleghi l’avevano preferito in maggioranza. E quell’atmosfera di diffidenza che percepivo intorno a me, specie all’inizio dei corsi, era ormai dissolta. Il sistema era già abbastanza maturo e la sua aderenza allo standard UNIX (in particolare alle Single UNIX Specifications version 3, SUSv3 in breve) facilitava moltissimo i rapporti con GNU/Linux, il quale, pur non aderendo ufficialmente allo standard, era in pratica già perfettamente allineato alle SUSv3. Cosa per me fondamentale perché mostrare come ogni dettaglio spiegato sia applicabile sia a macOS che a Linux è stato sempre uno dei cardini dei miei corsi.
E siamo ai nostri giorni. Le nostre aule hanno dei buoni iMac, che hanno ormai svolto 9 anni di onorato servizio. Di fronte a ciò, i soliti mugugni iniziali sul costo eccessivo di queste macchine sono spariti e anche i detrattori più tenaci devono ammettere che di fatto la scelta ci ha permesso un significativo risparmio. Il supporto a macOS di queste macchine arriva fino a Catalina, anche se, per la verità, con Ivan Taurino, il responsabile tecnico del laboratorio, abbiamo deciso di fermarci a Mojave.
Le cautele di Apple sulla sicurezza possono andar bene per un utente comune ma cominciano a essere eccessive per le necessità di un’aula didattica: francamente, dover combattere continuamente in un’aula informatica con Xcode che chiede autorizzazioni, con i file in quarantena, la System Integrity Protection e compagnia cantante, è una vera seccatura.
Oggi, nonostante le sempre più risicate risorse a disposizione delle università abbiamo buone speranze di riuscire ad aggiornare l’intero parco macchine con i nuovi iMac con Apple Silicon, quando saranno disponibili. A quel punto saremo costretti ad arrenderci al cambiamento, con la speranza che Apple si decida a dare una mano a quelli che usano i Mac nella didattica con qualche strumento utile a semplificare la gestione dei vincoli imposti dalla sicurezza e la vita degli amministratori dei sistemi.
Insegnare sistemi operativi a distanza… quale è l’esperienza didattica in questo particolare settore e in questo delicato momento?
Devo premettere che il mio corso Sistemi Operativi ha un’impostazione abbastanza particolare, che è ben documentata dal libro di testo ad esso dedicato, appena pubblicato, al quale avete avuto la bontà di dedicare un articolo qualche giorno fa. I corsi tradizionali di Sistemi Operativi, solitamente di taglio molto teorico, mal si adattano alle lauree di Ingegneria dell’Informazione (L-8 nella classificazione ministeriale), che hanno una natura piuttosto ibrida e lasciano uno spazio relativamente limitato all’informatica. Gli studenti rischiano di terminare il corso di studi carichi di nozioni astratte, senza aver avuto occasione di metterle in pratica e, in definitiva, senza saper fare nulla di concreto, tradendo così le finalità della cosiddetta laurea breve che vorrebbe favorire un inserimento immediato nel mondo del lavoro.
È un fatto noto che nella memoria umana il tempo di scadenza delle nozioni teoriche sia molto più ridotto di quello delle esperienze pratiche. Senza di queste, i contenuti appresi dalla teoria evaporano rapidamente lasciando i laureati a mani vuote. Perciò io imposto il corso insegnando ad usare la CLI per esplorare un sistema particolare, UNIX, per la sua prevalenza in ambito professionale, e comprendere il suo funzionamento sperimentando, per osservazione diretta dei suoi meccanismi. Così non solo si impara a conoscere il sistema ma si impara anche a “fare”.
Da tutto ciò si comprende come la mancanza dell’esperienza diretta in aula sia un problema potenzialmente serio per il mio corso. Per dare un’idea di quanto ciò sia vero, basti dire che l’esame è condotto chiedendo allo studente di risolvere un problema di gestione del sistema operativo, per esempio con la scrittura di uno script bash, direttamente al computer che gli viene assegnato.
Di passaggio, potrà incuriosirvi sapere che fin dal primo esame, vent’anni fa, gli studenti sono liberi di usare motori di ricerca, libri, pendrive. Gli dico sempre che ormai un informatico lavora così e che tra le cose che deve imparare c’è anche la ricerca delle soluzioni in rete. Arrivo a dirgli: “se trovate la soluzione e fate un copia e incolla per me va bene” (naturalmente copiare è tutt’altro che banale senza la comprensione di cosa si sta copiando).
Tornando a noi, fortunatamente c’è un’altra circostanza che mi aiuta molto a limitare i danni. Fin dal 2011, e ininterrottamente fino ad oggi trasmetto regolarmente tutte le mie lezioni in streaming – lo facevo già da molto prima ma non così regolarmente – e tutti le potevano seguire anche da casa (eh si, la DAD, come si chiama ora, l’ho cominciata con un certo anticipo, assemblando coi miei collaboratori i sistemi necessari, 10 anni prima che la pandemia ci aggredisse e che i big dell’informatica ci tempestassero di software e risorse di rete).
Questo mi ha permesso di affinare a lungo le tecniche per raccontare i sistemi operativi e per gestire al meglio la parte pratica del corso anche a distanza. Sarebbe lungo raccontare qui i dettagli tecnici ma basti dire che è accaduto spesso che i ragazzi mi dicessero di sentirsi più a proprio agio a seguire da casa che in aula.
Rimane il fatto che per me è un principio indiscutibile che ripeto in ogni occasione da quando tenni la prima lezione a distanza (a una classe in Turchia!) nel 1994: la didattica di qualità è interattiva e l’interattività è massima in presenza.
L’insegnamento a distanza è perfetto per rimediare temporaneamente alle mille limitazioni alle quali uno studente può essere soggetto. Ma è un compromesso: appena possibile bisogna guardarsi in faccia. Punto.