Sembra quasi un film di fantascienza di quelli degli anni Ottanta-Novanta: Fuga da New York, Lo squalo, Apocalypto. Un attacco alla diligenza, la voglia di far cadere Apple sul suo App Store, il desiderio di mostrare che l’azienda è brutta e cattiva per i motivi che però non sono quelli “giusti”. La tesi di fondo è che Apple chiede commissioni troppo elevate sulle app che vanno nei suoi store, e che bloccare le app gratuite che cercano invece di farsi pagare al di fuori dello store per accedere alle stesse funzionalità che però non vengono vendute nello store, sono ingiuste.
Il problema è che questa tesi viene portata avanti da soggetti tutt’altro che neutrali e in maniera tutt’altro che lineare. La battaglia è cominciata con Epic Games, l’azienda dietro a Fortnite e vari altri giochi. L’esempio del gioco è perfetto: si tratta di un modello freemium, lo scarichi gratuitamente ma poi paghi per accedere ai vari contenuti aggiuntivi. Che Epic non vuole più siano pagati dagli utenti in modo che una commissione vada ad Apple.
Dietro questa posizione, e quella di svariati altri autori di app inclusi i creatori di Hey, il servizio di posta elettronica a pagamento che si acquista fuori dall’app store ma che si usa con una app che si scarica dall’app store e che consente di provare il servizio prima di pagarlo, c’è in realtà moltissimo da dire e da vedere.
Qui ne facciamo un’analisi politica, se perdonate l’ardire, e non legale o di cronaca. A cominciare dall’idea che sia il valore di Apple e non la sua dimensione la cosa che attrae di più l’attenzione della concorrenza. E la sua politica in fatto di privacy.
Apple è la più grande azienda al mondo per capitalizzazione di mercato, con duemila miliardi. Come dice Bill Gates, quando diventi estremamente grande devi aspettarti un trattamento molto più duro da parte della concorrenza e delle autorità statali per il controllo. Lo dice lui giustamente, sottolineando però le pratiche scorrette e parzialmente illegali della sua azienda che hanno portato a varie indagini anti-trust e marcato la carriera di un imprenditore spietato e guidato da un’etica del profitto al di sopra di tutto il resto, con poi una “coda” come grande benefattore (ma si potrebbe dire che fare beneficienza dopo sia un po’ troppo facile, forse bisognerebbe avere un approccio diverso al business, più etico, umano e sostenibile).
Epic Games dà l’idea di essere pronta non tanto a vincere una battaglia in linea di principio o a cercare di sopravvivere a tempi oscuri, quando a voler dare una spallata a un sistema che riduce le sue possibilità di guadagno e di crescita. Epic vuole mettere il suo store per i giochi al posto di quello di Apple e sostanzialmente disintermediare la relazione con gli utenti, mangiando tutta la torta.
Apple dal canto suo ha creato App Store in un momento – il 2008 – in cui il modello di vendita diretta tramite download gestito dalla piattaforma stessa non aveva alcun precedente di grande scala. La percentuale chiesta, che poi è lo standard del settore, viene dal Giappone, dal mondo dei videogiochi: fu Nintendo a negoziarla con Midway per la vendita dei titoli sulle prime generazioni di console da casa. La logica era: il 10% di commissione sulla vendita del gioco e il 20% per la produzione delle cartucce su licenza (Midway non aveva la capacità necessaria e si doveva appoggiare alla stessa Nintendo, che da allora ha sempre mantenuto il controllo su questo fondamentale aspetto del suo business). Il 30% viene, secondo gli storici del software, da là ed è, come è emerso nei mesi scorsi leggendo la ricerca commissionata da Apple, lo standard sia nel mondo del gaming che nella maggior pate degli altri settori.
Uno standard che non impatta direttamente gli utenti e i fruitori di prodotti e servizi, sia chiaro, perché stiamo pur sempre parlando di commissioni staccate da produttori di software alla azienda distributrice con la sua piattaforma. Un po’ come se stessimo discutendo della percentuale che una major discografica paga a chi produceva e distribuiva i suoi CD sul mercato.
La strategia era stata oltretutto voluta e pensata da Steve Jobs quando Apple non aveva ancora una briciola del mercato degli “smartphone” (saldamente in mano a Nokia e compagnia) e voleva un flusso di cassa tale da consentirgli di far funzionare l’app store senza rimetterci. Perché poi di questo parliamo: il più grande sistema di cloud computer dedicato allo storage e distribuzione delle app su alcuni miliardi di apparecchi. Un sistema che non è paragonabile alla semplice vendita di scatole contenenti il software nei negozi di terze parti.
Vogliamo invece attaccare Apple anziché difenderla? Andiamo a vedere la posizione critica degli sviluppatori giapponesi. Quelli sì arrabbiati per un motivo sensato: avendo sottoscritto un contratto che intendono rispettare (e non rinegoziare con al tecnica che negli Usa va adesso per la maggiore, “alla Donald Trump” per intendersi), protestano per un altro aspetto. Vorrebbero una qualità del servizio migliore: più attenzione da parte di Apple, più prontezza nella review delle app, più documentazione e materiali a disposizione. Insomma, quello che vedono sono i difetti dell’app store che nel tempo vari dirigenti non ultimo Phil Schiller hanno cercato di cambiare, e cioè renderne meno burocratico e più veloce il funzionamento.
Invece, l’attacco ad Apple va avanti e aggiunge una “fetta”: i pareri resi per “desiderio di verità e giustizia” da parte di Microsoft, Facebook e altri in cui sostanzialmente si dice: Apple è brutta e cattiva perché abusa della sua posizione di monopolio spingendo i poveri sviluppatori, che sono quelli che lavorano veramente, a svenarsi, mentre lei non fa nulla.
Ora, a parte che Apple ha il 25% del mercato, non esattamente una posizione di monopolio, e che esiste più di una piattaforma alternativa (grazie a Trump adesso c’è anche Huawei che deve “ballare da sola”) e decoine di produttori di apparecchi alternativi agli iPhone, perché Apple dovrebbe chiedere qualcosa di diverso da quello che chiede e che offre? In un condominio dove ci sono, a seconda del modo in cui lo si guarda, quattro appartamenti di cui uno di Apple e tre di un altro locatario, oppure venti appartamenti di cui uno solo di Apple, perché Apple non dovrebbe decidere qual è l’affitto che vuole che gli affittuari paghino?
Come diceva Giulio Andreotti, politico senza scrupoli del secolo scorso, “a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”. Lasciate che questo vecchio cronista: se seguiamo la regola degli antichi romani (il “cui prodest” sul quale non mi dilungo) l’attacco ad Apple ha sostanzialmente tre direttrici. La prima è quella di Epic Game, cioè spaccare lo store e accedere agli utenti direttamente, guadagnando senza mediazioni. Questo con una pratica di negoziazione di un nuovo contratto (o della definitiva dismissione dei contratti) che abbiamo definito poco sopra in stile “Donald Trump”: violenta e anche becera.
La seconda, soprattutto per quanto riguarda Facebook e Microsoft ma non solo, è legata alla privacy degli apparecchi: con iOS 14 Apple ha serrato ulteriormente le cinture di protezione degli utenti facendo in modo che vengano tracciati pochissimo o nulla, e il settore che si occupa di “capitalismo della sorveglianza” e “monetizzazione degli utenti”, cioè bulli che ritengono di poter fare quel che vogliono con i dati di tutti (e ai quali è stato permesso che sia così), si sta ribellando e contrattacca vedendo una possibile debolezza. La difesa che Apple stia colpendo “i piccoli e gli utenti” è senza senso, perché a reagire sono Facebook e Instagram, che hanno rispettivamente 2,5 e 1 miliardo di utenti e nessuno non ci vede niente da dire.
Il terzo livello è puramente finanziario: da due decenni colpire Apple in maniera diretta o indiretta, dall’indiscrezione fatta filtrare ad arte ai giornali a veri e propri attacchi frontali come questo, produce evidenti ricadute in Borsa. E in ambito finanziario si può scommettere sulla crescita o sulla decrescita di un titolo nel lungo o nel breve tempo. È indubitabile che, con una azienda da duemila miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato, ci sono soggetti che hanno tutto da guadagnare contribuendo alla polarizzazione degli scontri che comporta le variazioni di mercato dalla quale possono lucrare.
In conclusione, quel che rimane dell’attacco ad Apple forse è qualcosa di molto diverso da quel che leggiamo sui giornali e online. Apple ha come obiettivo sicuramente il profitto per sé e i suoi azionisti ma, da una decina di anni ormai, pratica un approccio etico e lo fa in maniera coerente e costante. Lo stesso non si può dire di chi la sta attaccando. Riflettere su quello che questo vuol dire lo lasciamo al lettore.