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La vera cura dell’iPad eccola qua

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Il paziente non è grave, dottore, ma se la malattia persiste potrebbe diventare cronica e farlo invecchiare male. Anzi, diciamocelo pure: accorciargli la vita. Qual è la cura?

Se l’iPad fosse una persona, questa sarebbe la domanda che sarebbe legittimo porsi. Perché, intendiamoci subito, l’iPad è un ottimo prodotto. Un grande strumento. Va benissimo in tutto quel che fa, però non è ancora diventato quel qualcosa di indispensabile nonostante siano passati quasi quindici anni dal suo lancio.

Se fosse una persona potremmo dire che ha un ritardo nello sviluppo: servono integratori o forse è necessario tornare al tavolo da disegno? Così, abbiamo capito, l’iPad non esprime quel che potrebbe. Vediamo perché e quale potrebbe essere la cura giusta, visto che manca pochissimo alla presentazione dei nuovi modelli. E le ipotesi e i commenti non mancano.

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I problemi dell’iPad

La premessa di qualsiasi cura è capire quale sia la malattia. Di che cosa soffre il paziente. Nel caso dell’iPad, è effettivamente una specie di sindrome, metà “reale” e metà “psicologica”. Anzi, filosofica. È una mancanza che non è solo hardware (ma è anche hardware) e non è solo software (ma è anche decisamente software).

Cominciamo dall’hardware. L’iPad ha potenza da vendere, batteria ancora di più, uno schermo notevolissimo e pure touch. Si possono aggiungere penne, trackpad e tastiera, accessori vari. Cosa volete di più dalla vita? Allora, perché non si trasforma in un prodotto che mangia la terra sotto i piedi al resto del mercato, cioè quello dei personal computer portatili?

Dall’altro lato, l’iPad adesso ha praticamente tutto il software che si può usare per il Mac e anche altro. Certo, deve essere trasformato in app e le interfacce devono essere riscritte. Tuttavia, la componente comune dei processori Apple Silicon è potentissima e consente di trascrivere i programmi con uno sforzo limitato alla sola interfaccia. Eppure, se c’è da fare qualcosa di appena un po’ più complicato che leggere una mail e rispondere, non viene la tentazione di prendere l’iPad bensì di aprire il Mac. Come mai?

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Le ragioni della malattia

Una spiegazione sta nel suo DNA, che è quello di un dispositivo touch nato come l’iPhone per essere usato con le dita (ci arriviamo tra un attimo). L’altro è il bisogno di non mangiarsi vivi i Mac portatili. Soprattutto quelli di fascia più bassa, cioè i MacBook Air, che verrebbero sostanzialmente eliminati se l’iPad si trasformasse in un personal computer portatile a tutti gli effetti.

La terza spiegazione, ma è la più scontata, la dobbiamo tirare fuori subito così poi non ci pensiamo più. Abbiate pazienza, viene sempre invocato invano, ma in questo caso la sua mancanza si sente veramente perché Steve Jobs sapeva fare la differenza proprio in casi come questo.

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Steve Jobs

Manca la polverina magica, manca il vero decisore al vertice, manca Steve Jobs. Scusate, sappiamo che evocare Steve Jobs quando si parla di Apple vuol dire innanzitutto fare un torto a tutte le persone che in quell’azienda lavorano quotidianamente e con una intenistà rara nel settore, per produrre oggetti e servizi di qualità altissima. E sopra tutti gli altri, Tim Cook, che ha saputo ereditare e guidare Apple come nessun altro avrebbe potuto fare, verso successi che oltretutto la Apple a guida Steve Jobs non aveva mai raggiunto.

Tuttavia, in pochissimi casi, forse solo in questo dell’iPad e (pensiamo noi) in prospettiva per il Vision Pro, manca indubitabilmente la figura di sintesi finale, il vertice che semplifica e decide, la ciliegina sulla torta. Questo non vuol dire fare un torto a Tim Cook, perché sarebbe come paragonare Diego Armando Maradona a Francesco Totti: tutti e due trequartisti (anche se di epoche diverse) e Totti è stato un campione straordinario per il calcio italiano e mondiale. Ma insomma, Maradona è Maradona. Più di Zico, più di Ronaldinho, più di Platinì.

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L’iPad, “prodotto interrotto”

Comunque, mettetela come volete, ma manca qualcuno che dica “si” e “no” come Steve Jobs diceva “si” e “no” ai prodotti. Nel caso dell’iPad, nato sotto la sua ala, Jobs aveva il ruolo e il gusto sia di Primo Cliente che di Grande Decisore. Semplificava i prodotti sino all’essenza, ne capiva l’anima e lo scopo, e decideva se farli o non farli fare ai suoi. Indicando cosa tenere e cosa togliere. Tecnicamente non “inventava” nulla, ma era la sua spinta a dire quale direzione dovessero prendere le cose. E soprattutto, quando erano pronte per il mercato.

Questa spinta, nel caso dell’iPad, oggi manca. E si vede, perché il tablet è un “prodotto interrotto”, che sta diventando sempre più potente dal punto di vista hardware ma non quaglia ancora come potrebbe e come dovrebbe dal punto di vista del funzionamento e della resa.

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Il problema del cannibalismo

L’iPad, lo sappiamo, nasce perché fa bene cose che né i computer portatili né gli smartphone sanno fare. È una categoria di mezzo che ha senso nella misura in cui fa bene solo lui il suo lavoro. Per farlo però non deve restare limitato ad essere una specie di Grande iPhone. Deve diventare un prodotto completamente a se stante. E quindi entrare nell’orto del Mac. Cosa che sistematicamente non fa.

Gli accessori dell’iPad sono pensati per dargli una capacità modulare di funzionamento (la penna, la tastiera aggiungibile) che i MacBook non hanno. Tuttavia, non li cannibalizza se non per le funzioni più elementari. Studenti che usano l’iPad per andare a lezione anziché il MacBook, disegnatori che lavorano sull’iPad anziché sul Mac.

Si possono fare moltissime altre cose, certamente, dalla mail alla navigazione web, dal fotoritocco alla composizione musicale. Ma neanche troppo stranamamente quando le cose diventano complicate l’iPad non è mai lo strumento giusto. Apple lo ha tenuto “indietro” per lasciare spazio al Mac. E questo poi si vede.

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Le ditona grosse degli utenti

Infine, l’aspetto psicologico, cioè software. L’iPad è nato e resta una derivazione dell’iPhone. Uno strumento non solo completamente controllato (anche se adesso l’UE lo sta aprendo a forza) ma anche immaginato per un uso “in punta di dita”. Che sono grosse. Da qui le icone giganti, gli spazi vuoti, l’interfaccia che si continua a manipolare con le dita.

Se il Mac diventasse touch, come si dice che Apple vuole fare, vedreste che serve un pennino per azionare l’attuale intefaccia (e Apple probabilmente sovrapporrebbe uno strato stile iPadOS per rendere le cose più facilmente toccabili). Su Windows il dito è scomodo, e infatti l’uso è ibrido: molta tastiera e poco dito, solo per alcune attività specifiche (selezione, spostamento e simili).

L’interfaccia dell’iPad è stata pensata per funzionare in un mondo diverso da quello dove sta la maggiore produttività, cioè fra tastiera e mouse. E non è tanto una questione di puntatori e dimensioni delle dita o delle tastiere, quanto di come è concepito lo spazio. I 13,3 pollici del MacBook Air che stiamo usando per scrivere questo articolo sono molto più “pieni”, “densi” di informazioni dei 12,9 dell’iPad Pro con tastiera-cover.

Non è una questione di ergonomia del dispositivo, quanto di campitura degli spazi nello schermo, di morbidità dell’intefaccia, di proporzioni e usabilità delle cose. In una parola, anzi una sigla, è la UX che è completamente differente.

Sparare basso, sparare alto

E qui Stage Manager rientra a pieno titolo. Apple ha capito che andava potenziato il paziente con una cura rinvigorente. E ha continuato però in una direzione che è quella di una visione “Post PC” che ancora non è chiaro dove voglia andare. Quella direzione si chiama Stage Manager.

Il sistema pensato per rendere realmente multitasking il iPad non è ancora pronto come potrebbe per varie ragioni tra le quali l’interfaccia che utilizza sempre dimensioni grafiche pensate per iOS/iPadOS e non per macOS. Stage Manager inoltre uccide l’idea di “libertà” di fare cose nello schermo del computer, relegandola a poche mosse codificate. Intendiamoci, può fare moltissimo, ma la sensazione continua a essere quella di un sistema tenuto “basso” per non superare a destra il Mac. Quando invece bisognerebbe sparare alto, altissimo.

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Ecco cosa serve all’iPad secondo noi

Come avrete capito, la nostra cura per il paziente è una cura d’urto. Dovrebbe prendere il posto del Mac, come spieghiamo in un altro articolo. E per farlo dovrebbe essere riscritta l’interfaccia non del Mac ma dell’iPad. Andrebbe tutto trasformato in un sistema molto più “piccolo”, “fine”, capace di fare cose che si fanno oggi sul Mac. Sostanzialmente, andrebbe trasformato l’iPad in un Mac e poi eliminato il Mac. Oppure, si farebbe prima a chiamare il Mac “iPad” e andare avanti così. O forse no?

Più realisticamente, il ragionamento è questo: serve una interfaccia grafica più fine e che permetta di occupare meglio lo spazio degli schermi. Una interfaccia grafica che non ha molto senso su un iPad mini, ma che avrebbe senso sugli iPad di dimensioni tradizionali (dai 10 pollici in su). Benissimo il touch, ma serve anche la finezza di mouse e tastiera.

Occorre anche rivedere l’hardware, dotandolo di una maggiore precisione e solidità: le tastiere e cover sono molto belle esteticamente e resistono meglio di quelle del Mac allo sporco (di solito) ma sono amatoriali rispetto a quelle di un MacBook, pur costando tantissimo.

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La vera cura sarà l’AI?

Infine, bisogna inserire l’AI per bene, visto che da oggi in avanti tutti i dispositivi di qualsiasi produttore sono farciti di intelligenza artificiale per fare tutto. Apple la sta usando benissimo (per fare cose “dietro le quinte”) ma ovviamente deve fare un salto in avanti.

Ha i processori giusti (tutti gli Apple Silicon hanno abbondanza di nuclei di calcolo per il Neural Engine) e soprattutto ha tanta capacità di integrare tecnologie usate anche ad esempio su Vision Pro e sugli iPhone. Ma la cura, qui, sta nel trasformare l’iPad anche in uno strumento con il quale parlare e da guardare, capace di “capire” cosa vogliamo da lui e mostrarcelo sullo schermo o rispondendoci.

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